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Transfemminismo for dummies. Femminismo intersezionale, assi di oppressione e reti transfemministe

"Transfemminismo for Dummies", dove dummies siamo tuttə, in primis chi scrive. Perché si può parlare per anni di transfemminismo e femminismi senza mai ripetersi e toccando temi così vari da raggiungere, almeno una volta nella vita, il vissuto di ognuno di noi.

Il nostro obiettivo è quello di creare uno spazio in cui esplorare e comprendere il mondo del transfemminismo in modo accessibile e inclusivo. Cercheremo di sgretolare miti, chiarire concetti e offrire una prospettiva sulle questioni legate alla società patriarcale e ai temi del femminismo intersezionale.

Per farlo, non saliremo in cattedra ma cercheremo di fornire una guida semplice e informale insieme a degli spunti di riflessione che siano (auspicabilmente) interessanti, sia per espertə che per neofitə, affinché ogni lettorə possa sentirsi partecipe e parte integrante della creazione di quel ponte che continua ad unire le esperienze individuali alla comprensione collettiva.


di Scilla Dylan



foto di Mirko Ostuni



 

Il termine “femminismo intersezionale” nasce nel 1989 dalla voce della giurista e attivista Kimberlé Crenshaw, che coniò questo termine per descrivere come i sistemi oppressivi presenti nella società (ad esempio razzismo, sessismo, omofobia, transfobia, abilismo ecc) non agiscano indipendentemente l’uno dall’altro, ma siano interconnessi. Questi sistemi, descritti come “assi di oppressione” non possono essere contrastati senza tenere in considerazione la loro pluralità e la loro frequente coesistenza ai danni delle stesse soggettività. In un suo intervento all’Università di Chicago dal titolo Demarginalizing the Intersection of Race and Sex Crenshaw descrisse gli assi di oppressione come:

“[...] un'analogia con il traffico di un incrocio, che viene e va in tutte e quattro le direzioni. Così, la discriminazione può scorrere nell’una e nell’altra direzione. E se un incidente accade in corrispondenza di un incrocio, può essere stato causato dalle macchine che viaggiavano in una qualsiasi delle direzioni e, qualche volta, da tutte. Allo stesso modo, se una donna nera si fa male a un incrocio, il suo infortunio potrebbe derivare dalla discriminazione sessuale o dalla discriminazione razziale [...] Ma non è sempre facile ricostruire un incidente: a volte i segni della frenata e le lesioni semplicemente stanno a indicare che questi due eventi sono avvenuti simultaneamente; dicendo poco su quale conducente abbia causato il danno.”

Non può quindi esistere una priorità delle lotte, in primis perché molte persone non fanno parte di una sola minoranza oppressa, ad esempio una donna può essere nera e lesbica, per cui in ogni persona più assi di oppressione possono intersecarsi, ed in secondo luogo in quanto il dare priorità ad una lotta rispetto a un’altra è esso stesso un metodo di oppressione, in quanto determina la marginalizzazione di coloro che appartengono alla minoranza che in quel momento viene messa da parte. Le riflessioni sull’intersezionalità hanno permesso di riconoscere che ognunə di noi può essere oppressə per più di un motivo, ma allo stesso tempo può godere di un privilegio per altre caratteristiche. Ad esempio, una donna cisgender, bianca e lesbica potrebbe subire discriminazioni legate al genere e all’orientamento sessuale, ma godrebbe dei privilegi legati al colore della pelle ed alla cisnormatività. Riconoscere questo è il primo passo per riconoscere l’importanza del non togliere spazio ad altre minoranze oppresse e dell’unire le forze, lasciando spazio alle altre soggettività e facendosi megafono delle loro istanze, come esse lo faranno per le nostre. L’intersezionalità invita a guardare le interconnessioni laddove la società ci ha abituatə a pensare per compartimenti stagni e a guardare ai rapporti di potere che si ritrovano nella pluralità delle esperienze soggettive.



Prima ancora che Kimberlé Cranshaw coniasse il termine, il femminismo intersezionale si faceva spazio nel contesto delle lotte delle femministe nere americane. A partire dall’iconico discorso di Sojourner Truth del 1852 Ain’t I a woman, sino ad Angela Davis che, con il suo Donne, razza e classe (1981), sottolineava come l’esperienza vissuta dalle donne nere (in questo caso negli Stati Uniti) fosse totalmente diversa da quella delle donne bianche, riflettendo tale differenza sui movimenti politici che ne derivano. Davis pose, ad esempio, l’accento sulla narrazione costruita intorno agli stupri sistematici ad opera degli schiavisti e delle leggi ad hoc che li “punivano”, in realtà tutelando gli uomini (ma anche le donne) bianchi e abbienti e colpevolizzando o infantilizzando le donne nere. Anche il contesto socio-economico è alla base di un’altra forma di oppressione. Il capitalismo, infatti, trae forza dalle disuguaglianze, favorendo l’oppressione razzista che permetteva la disponibilità di forza-lavoro ampiamente sottopagata.

Dal concetto di femminismo intersezionale è nato quello che attualmente chiamiamo “transfemminismo”, ovvero una forma di intersezionalità che dichiaratamente rifiuti il binarismo di genere e che non escluda tutta quella porzione di persone di genere non conforme che erano tradizionalmente escluse dal femminismo della prima e seconda ondata, in quanto non considerate “donne” secondo i canoni, ormai ampiamente superati, degli anni ‘60 e ‘70. Il termine transfemminismo viene coniato dalla studiosa e attivista Emi Koiama, che ne stila i principi nel Manifesto Transfemminista, del 2001:

“I principi fondamentali del transfemminismo sono semplici. Primo, è nostra convinzione che ogni individuo abbia il diritto di definire la propria identità e di aspettarsi che la società la rispetti. Questo aspetto include anche il diritto di esprimere il nostro genere senza timore di discriminazioni o violenze. Secondo, riteniamo di avere diritto esclusivo di prendere decisioni in merito ai nostri corpi e che nessuna autorità politica, medica o religiosa possa violare l’integrità dei nostri corpi contro la nostra volontà o intralciare le nostre decisioni riguardo a ciò che di essi facciamo.”

Nel Manifesto, Koiama riporta all’attenzione la grande forza dell’intersezionalità, che vede nelle differenze non un pericolo ma un punto di forza. In generale è infatti pressoché impossibile scindere la lotta femminista da quella antirazzista, per i diritti della comunità LGBTQIAPK+, antiabilista, anticapitalista ecc. perché l’oppressione del sistema patriarcale usa tutti questi mezzi come strumenti di controllo. Il transfemminismo rivendica quindi la necessità di unire le lotte senza dare la priorità ad una in particolare. Questo non vuol dire appropriarsi delle lotte dell* altr*, che magari non conosciamo, ma anzi dar voce proprio a chi quell’oppressione la vive ogni giorno, e porsi in ascolto senza salire su di un piedistallo. Di conseguenza, non esiste una forma di lotta contro il patriarcato che non sia transfemminista, come non esiste una pratica che renda una persona un* transfemminista migliore di un altr*. La rete che si crea di conseguenza permette di comprendere sfaccettature complesse di questioni per le quali lottiamo (ad esempio violenza di genere, aborto, diritti delle persone transgender, delle persone disabili o migranti) e aiuta ogni persona a non sentirsi isolata nella sua battaglia per i propri diritti, senza che questo comporti la scissione di aspetti che la interessano. Questa urgenza di essere considerati nella propria interezza è stata espressa efficacemente da Dianne Pothier, giurista e attivista canadese con una disabilità visiva la quale nel suo articolo Connecting Grounds of Discrimination to Real People’s Real Experiences scrisse:


“non posso mai subire discriminazioni di genere se non come persona con disabilità; non posso mai subire discriminazioni per la disabilità se non come donna. [...] Anche quando sembra essere rilevante un solo motivo di discriminazione, i suoi effetti riguardano la mia persona nella sua interezza”.


Perché questo sia possibile, il transfemminismo si pone in particolar modo in contrasto con il binarismo di genere, al fine di scardinarne gli stereotipi ed opporsi alla “cultura” dell’eteronormatività che impone degli standard entro i quali ogni persona sarebbe tenuta a definirsi, considerando sbagliata qualsiasi persona che si rappresenti al di fuori di essi. Al contrario, il femminismo intersezionale è necessariamente non dogmatico, nel rispetto dell’autodeterminazione di ognun*. La società patriarcale, infatti, si arroga la facoltà di mettere su un piedistallo le persone che rientrano nei suoi canoni, creando un’impostazione sociale di tipo gerarchico in cui più una persona aderisce agli standard imposti, maggiori saranno i suoi privilegi. La persona con maggiori privilegi sarà quindi tendenzialmente di genere maschile, cisgender, eterosessuale, bianco, abile, adulto, della classe medio/alta e con una famiglia tradizionale. Ovvio che questa sorta di “predatore” alpha della società patriarcale non diventa automaticamente un carnefice; non è detto infatti che abbia una vita perfetta e che sia consapevole dei suoi privilegi. Ciò non toglie che questi privilegi li abbia e che, nei limiti del contesto in cui vive e delle sue caratteristiche personali, ne raccolga i frutti. Ma il vero “trick” della società in cui viviamo non è tanto il mettere sul gradino più alto questa tipologia di persona, quanto il fatto in sé di generare un sistema di piedistalli da cui risulti facile cadere.



Chi si troverà ad avere dei privilegi in ragione della sua (parziale o totale) aderenza ai canoni prescritti, avrà ovviamente interesse a far sì che questi suoi privilegi permangano. Per far ciò dovrà continuamente dimostrare di mantenere le caratteristiche per cui li ha inizialmente raggiunti e, se possibile, acquisirne altre che possano garantire un piedistallo più solido. Ad esempio, una persona cisgender eterosessuale, quindi già in buona parte privilegiata, subirà la pressione sociale perché abbia prima una relazione monogama e stabile e una famiglia ufficiale in seguito (dichiarata tramite matrimonio), al fine di mantenere ed ampliare il piedistallo su cui si trova. Nel caso in cui non dovesse adempiere a questi obiettivi che vengono (im)posti si troverà a traballare sul suo piedistallo e a dover trovare altri metodi per non farlo crollare (ad esempio innalzando il suo status socio-economico attraverso il lavoro). Tutto ciò ci fa comprendere quanto la società patriarcale in cui viviamo basi la sua esistenza sul generare insicurezze e sulla conseguente spinta ad adeguarsi agli standard richiesti allo scopo di stabilizzare la propria condizione e ridurre il rischio di “caduta” e conseguente perdita dei privilegi. Ma cosa prevede la società per chi quei privilegi in partenza non li ha? La risposta è: la speranza.

Da sempre le categorie marginalizzate vengono blandite dalla società patriarcale con la speranza di migliorare la propria condizione se riusciranno ad adeguarsi alle sue richieste. In particolare, la soggettività oppressa viene da una parte sminuita, così da ridurre la sua autostima e convincerla che nella sua situazione attuale quei privilegi siano impossibili da raggiungere (ad esempio: “sei donna, quindi non puoi ambire a certi lavori”, oppure “sei gay/lesbica, non puoi farti vedere in giro con l* partner”), dopo di che viene posta di fronte ad un’alternativa, ed il copione in genere è “puoi avere maggior benessere, se solo rinunci a qualcosa”. Si dà quindi il miraggio per le donne di poter avere uno status vicino (attenzione: vicino, non pari) a quello maschile, a patto che rispettino certe regole che le rendano “donne modello”, ad esempio avendo una famiglia tradizionale, dimostrando forza senza però eccessiva autorevolezza e, soprattutto, dimostrandosi migliori di altre donne. Allo stesso modo una persona omosessuale viene blandita con la promessa di poter avere una famiglia ufficialmente riconosciuta (matrimonio, figli), ma solo se rispetterà alcune regole: essere una famiglia monogama, in primis, ma anche non apparire in maniera troppo vistosa e, soprattutto, non dimostrare ancora rabbia perché, dopotutto, il tuo traguardo l’hai raggiunto per gentile concessione della società. Questo meccanismo, peraltro molto simile a quello di molte relazioni tossiche, comporta una divisione interna alle comunità oppresse, perché mette sul piedistallo non la comunità (che comunque sarebbe parziale e discriminatorio), ma addirittura solamente le soggettività che dimostrino di spiccare per “obbedienza ai canoni” all’interno della comunità stessa. Si genera quindi un continuo sommovimento interno, uno spintonarsi per raggiungere quei pochi posti al sole resi disponibili, con conseguente perdita di vista del problema generale. Il patriarcato riesce nell’intento quando fa sì che si trovino nemici all’interno delle stesse minoranze o comunità oppresse e non nel sistema che le divide. Quante volte abbiamo sentito dire frasi come “le peggiori nemiche delle donne sono le donne” o “è gay sì, ma almeno non è effemminato/transgender ecc”?



Troppe volte, talmente tante da normalizzarle. Ma ad un esame nemmeno troppo attento potremmo accorgerci di quanto in realtà siano frasi che spingono a distinguersi dalla propria collettività, dimostrando di esserne parte, sì, ma meglio, in maniera più degna della stima e del rispetto sociale; una dignità basata però esclusivamente sull’aderenza a standard preconfezionati e imposti dall’alto. È per questo motivo che hil femminismo intersezionale ed il transfemminismo rigettano il binarismo di genere, perché la suddivisione delle caratteristiche esteriori e comportamentali tra maschile e femminile è tra le più radicate imposizioni della società patriarcale, nonché una delle più ubiquitarie per zona geografica e classe sociale. È un’imposizione che non tiene conto né delle effettive evidenze scientifiche, né della realtà empirica di infinite sfumature nelle caratteristiche umane, a prescindere dal genere in cui ci si identifica o al quale si viene assegnat* alla nascita. In maniera quasi lombrosiana, la tradizionale dicotomia uomo/donna prende (poche) caratteristiche genetiche e fenotipiche e vi costruisce intorno un universo arbitrario di rappresentazioni esemplificative dell’uomo/donna perfett*, creando l’obiettivo (spesso irraggiungibile) da porre per chi richieda il suo spazio nel privilegio e così da poter colpevolizzare chi non vi aderisce, giustificando la sua caduta. Per liberarci da questa oppressione è allora fondamentale riappropriarci della nostra identità in primis, validando il nostro vissuto, senza misurarlo su quello altrui. Quest’idea, attuata in ogni asse di oppressione tra tutte le persone che li subiscono, diventa un metodo di lotta politica e dà origine al femminismo intersezionale: una prospettiva politica che abbraccia lotte diverse contro tutte le oppressioni possibili, senza imporre una gerarchia fra di esse ma rivendicando le specificità di ciascuna. Il femminismo intersezionale è quindi necessariamente non dogmatico, poiché ogni azione assume un significato profondamente diverso a seconda del contesto in cui essa viene compiuta. Come ha fatto notare Kimberlé Crenshaw in un recente discorso all’Università di Westminster

"l’intersezionalità è un modo di vedere le cose, uno strumento per analizzare la realtà. La parola in sé, svincolata dalle esperienze di vita, rimane solo un guscio vuoto: l’intersezionalità ha senso nella misura in cui porta a un cambiamento reale."

Dall’applicazione politica del concetto di intersezionalità sono nati collettivi e movimenti di lotta politica e di applicazione quotidiana del transfemminismo a livello internazionale. In Italia, il più ampio e capillare è il movimento Non Una di Meno, che nasce nel 2016 a Bologna in risposta alle istanze sudamericane di Ni Una Menos, per la lotta contro la violenza di genere e l’ostruzionismo istituzionale al diritto all’aborto e, negli anni successivi, amplia i propri orizzonti includendo le istanze delle varie comunità marginalizzate, diventando a tutti gli effetti un movimento transfemminista intersezionale. Il movimento, come anche molte altre realtà transfemministe italiane e internazionali, ha lo scopo in primis di formare una rete tra minoranze e soggettività oppresse che possa sostenere le varie lotte e creare uno spazio sicuro per ciascun*. Per far ciò si parte dal riconoscere insieme le forme di oppressione e di violenza patriarcale, decostruirne i dogmi che sono stati imposti dall’educazione tradizionale e favorire l’autodeterminazione delle singole persone e delle comunità. Questo permette di avere solide basi su cui costruire le lotte e le rivendicazioni che mirano a costruire insieme una società più giusta, in cui l’intersezione non sia più delle oppressioni, ma solo delle infinite variabili interpersonali, finalmente libere di essere, in pieno diritto, alla luce del sole.

La rivoluzione sarà transfemminista, o non sarà.





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