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T-MAG IMO: Art Experience (February – March 2022)


A cura di Vinicius Jayme Vallorani ITALIAN VERSION

ORDET Jon Rafman '₳Ɽ฿ł₮ɆⱤ Ø₣ ₩ØⱤⱠĐ₴' L’unico modo adeguato e rispettoso che posso utilizzare per descrivere il lavoro di Jon Rafman, senza cadere nei trabocchetti technologically-inclined della ormai solcata cultura cyborg e delle varie evoluzioni date dall’intelligenza artificiale, potrebbe essere quello di riportare qui di seguito, per ore in maniera disturbata-indisturbata tutto ciò che mi è venuto, mi sta venendo e verrà di sicuro in mente, come in qualsiasi simil situazione post weekend pazzerello, sguazzando sveglio nelle pozzanghere dell’inconscio e traendone ragioni effimere, e subdolamente ragionare sulle molteplici possibilità performative dell’individuo nel sociale. Questo comportamento, se volete di difesa, si posiziona come critica all’attuale saturazione-data di immagini rappresentative-rappresentanti-performative e del valore economico a loro attribuito dal sistema capitalistico. In particolare alla conseguente perdita graduale delle virtù umane sostituite da un sempre più globale carattere apatico-irrazionale-ironico-ridicolo, necessario a mantenere attraverso la dimostrazione, quella attenzione mainstream tanto preziosa al motore globale fondato sullo scambio di beni.

Courtesy of the artist and Ordet galley, Milan

Ph. Credit Nicola Gnesi Ed eccomi qui allora, adagiato in un parco bau, di domenica, apparentemente riflessivo, a fare analisi di un lavoro artistico, che credo come veramente pochi esemplari, narra esplicitamente la transitorietà fluidificante della realtà attuale di cui facciamo parte, attraverso l’esplorazione di un linguaggio, senza sbilanciarsi troppo, tra i più rappresentativi dell’avanguardia artistica contemporanea ed efficaci in questa cultura sovrassatura di informazione. Ciò che mi spinge a scriverlo è l’ostinata ed enorme speculazione che compie Rafman (in mostra nello spazio indipendente ORDET fino al 26 di Marzo) sul tema dell’identità, stuprata modellata e continuamente sottomessa all’invasione digitale e ai suoi formati di interazione cosi infinitamente estesi da rendere la soggettività capace di mutagenesi e fusioni ad ogni singola interazione fisica.

Courtesy of the artist and Ordet galley, Milan Trovo che la forza delle opere video artistiche e di animazione gamer presentate, stia appunto nella variabile del formato digitale, della trasformazione che avviene a qualsiasi principio di forma e collocazione, e del contenuto socio-politico di individuazione spinto a zavorra nel bassofondo della narrazione e continuamente fatto riemergere, per istanti, attraverso la rappresentazione di contesti archetipici disturbanti. Le ’storie’ raccontateci, fanno da supporto a parabole umane sulla completa abnegazione delle volontà fisiche e mentali, a dispendio di un sempre più ‘necessario’ controllo ‘offerto’ da innocenti meccanismi ‘tecnologici’ di divulgazione mediatica. Sebbene i protagonisti di queste novelle siamo ancora noi, esseri ‘razionali e indipendenti’, il meccanismo che ne sorveglia i movimenti sembra avere altra natura. Un organo computazionale e aritmetico, con scopo unico di proliferare il suo processo/programma.

Courtesy of the artist and Ordet galley, Milan Il lavoro video full-lenght ‘Minor Daemon’ del 2021 (da guardare per intero, senza orari programmati, quindi sceglietevi del tempo opportuno), in totale stile Rafman-gaming, con riferimenti al suo precedente ‘Dream Journal’ (presentato alla Spruth Magers di Berlino e poi alla Biennale di Venezia del 2019), racconta, o meglio traduce (IMO- in my opinion), attraverso l’utilizzo di potenti relazioni immagini-suono e rare parti discorsive sature di concetti, un immaginario (o forse no) futuro distopico/utopico dove noi, spettatori partecipanti di una Virtual Reality, privati di qualsiasi attività motoria, viviamo come avatars continui drammi originari di una multi-dimensione onirica, dove l’imprevedibilità e la scontata inadeguatezza ad affrontare e reagire alle eventuali difficoltà, a confrontarne le problematiche, sfociano in un quasi totale abbandono del senso di responsabilità, scivolando, via via, alla consapevolezza di una elettiva e sadica opportunità, cioè la proliferazione della violenza come unico atto possibile e devoto alla supremazia. Per mia fortuna, non capisco se si tratti di una denuncia o meglio di una descrizione di una realtà passiva ma presente, quotidiana, dove l’individuo ‘user’ ritrova come unico mezzo per il confronto di timori e paure , sottoporsi alla totale abnegazione della vita fisica e abbracciare una tangibile realtà metafisica, dove il dolore corporeo e mentale, procurato o pervenuto che sia, non è, né diretto né percettibile, ma soltanto una frazione temporale estrapolata da uno dei tanti rituali di trasmutazione compiuti nella continua ricerca di migliorare noi stessi.

Courtesy of the artist and Ordet galley, Milan La verità però è che ora a dettare le regole del gioco non è più un procedimento evolutivo di imprinting mistico-naturale e organico, ma piuttosto un programma risolutivo creato da bisogni espressi da facoltà mentali contaminate, corrotte e degradate, sviluppato sul concetto prodotto-consumo, e che per questa sua ‘natura’, non conosce e non può conoscere intimamente l’oggetto rappresentato, e in particolare, la sua peculiarità piu profonda, il suo carattere indiscutibile, cioè quello di poter morire, il game over. E forse, inconsciamente o meno, è su questo che si costruisce tutta la ricerca. Cioè la possibilità attraverso l’estensione digitale e alla sua implicita struttura-data, di perseverare nell’antico sogno umano di continuità e immortalità, atroce paradosso che giustifica i mezzi al fine, ma che, tutto sommato, potrebbe essere comodamente offerto e fornito a chiunque sia disposto o abbia qualità economiche per farlo. Anche attraverso comode rate mensili. VIASATERNA Fabio Mauri 'Opere dall'Apocalisse' in collaboration with Studio Fabio Mauri and Hauser & Wirth VIASATERNA presenta una mostra antologica di uno dei grandi maestri dell’avanguardia Italiana: Fabio Mauri, artista poliedrico, pittore, coreografo, fondatore tra le altre della rivista Setacci insieme a Pasolini, Mauri ha fatto dell’azione artistica la chiave di trasformazione del concetto di dolore raccolto dai terreni bruciati del secondo dopoguerra.

Courtesy of the artist and Viasaterna galley, Milan Le opere in mostra, per la maggior parte disegni inediti, ricordano al manierismo contemporaneo della pittura incrostata di psichedelia, quanto la sperimentazione del segno e del colore possa fondersi continuamente nel molteplice avvenire dello spettro della ricerca artistica e nella sua estensione sul formato bidimensionale. Precisamente, ogni sua avvenuta ricerca è primaria (o primordiale?) nel complesso della storia dell’arte moderna: utilizza dai primi anni ‘70 la performance, decontestualizzandola politicamente dal suo precedente utilizzo propagandistico, per adattarla a linguaggio di denuncia contro le ideologie imperialiste; formalizza lo sviluppo fotografico all’interno della pittura, indaga lo schermo e il prototipo come strutture di manipolazione e il suono come principio-vibrazione capace di turbare oggetti e soggetti.

Courtesy of the artist and Viasaterna galley, Milan Il lavoro di Mauri è un continuum di segnali, messaggi, a ricordare una fragilità e frammentarietà dell’arte “sanabile solo attraverso l’interazione e la risonanza data dalla presenza dell’osservatore”. Su questo pone le fondamenta dell’indagine ecologica. Viene chiesto ad una Venezia culla della cultura internazionale dell’epoca, attraverso l’uso di un ripetitore e in varie lingue, ‘cos’è la natura?’ (I Numeri Malefici (installazioni),1978, di cui una parte visibile oggi al Castello di Rivoli), offrendo ad ognuno una personale idea critica sulla questione a riguardo insieme a quella insuperabile e spesso insopportabile sensazione di inesattezza intellettuale. Una ignoranza universale che sembra possibile coccolare solo attraverso la passione per la ricerca. In un affascinante documentario-intervista lasciato in proiezione continua nell’ ultima stanza sotterranea della galleria, un anziano e perennemente verde illuminante Fabio Mauri ci racconta l’assoluto e il presente: elementi anacronistici cosi caratteristici del suo lavoro, riaffermando quanto sia necessario al nostro istinto di conoscenza l’accettazione del fattore di errore, nel calcolo e nel giudizio. In linea con i suoi 20 anni di cattedra di estetica della sperimentazione a l’università dell’Aquila, Mauri, in totale stile ZEN e in risposta ad una affermazione di Wittgenstein, dichiara: ‘L’arte parla soltanto di ciò di cui non si può parlare’.

Courtesy of the artist and Viasaterna galley, Milan Nel senso, credo, che l’espressione interpretativa dell’artista, il suo moto creativo, l’impulso a tradurre l’essere delle cose e persone e offrire nuove finestre al mondo dell’osservare, può emergere solo da campi non coltivati, da ambienti sconosciuti, fraintesi e negletti. O, come dice Robert Frost, la differenza la fa lo scegliere di camminare su strade meno battute. Solo lì l’azione produce profondità, e a quel livello il linguaggio sembra comunicare autonomamente, al di fuori dei nostri dizionari, come in un sistema di radici, offre possibilità di crescita, di espansione di sopravvivenza. KAUFMANN REPETTO Talia Chetrit Dopo i successi al Maxxi Bulgari Prize del 2018 e delle recenti mostre del 2019 a Villa D’Este di Tivoli e Macro di Roma, Talia Chetrit (1982) torna in Italia a presentare le sue opere fotografiche negli spazi della Kaufmann Repetto di Milano, che per contenuti e ricerca, corrispondono ai tasks del linguaggio espositivo della fotografa di Washington D.C.

Courtesy of the artist and kaufmann repetto Milan / New York La Chetrit beneficia di questo contesto per ripensare al suo media in senso temporale. Il corpo fotografico rappresenta una retrospettiva di medio termine, ripercorrendo lavori congelati nell’arco di 20 anni. Partendo dal periodo adolescenziale per arrivare al presente, il corpus diviene atemporale attraverso una continua predisposizione ritrattistica vocata ad una fragilità alienata, dove chiunque con una mente dipendente dal tempo psichico avrebbe non poche difficoltà a collocare i momenti precedenti e successivi. Apriti cielo!, alcuni valori e scelte artistiche svelano la matrice fotografica attraverso affascinanti granature del supporto analogico, offrendo così al concetto generale della rappresentazione, un ultimatum, un merito specifico alla decadenza, al limite, una intenzione finale con esito di proposito.

Courtesy of the artist and kaufmann repetto Milan / New York Le prospettive della narrazione di Talia Chetrit, perfino nei pochi ritratti in mostra e nel suo unico autoritratto in età adolescenziale, denotano, nell’impostazione, un carattere di tipo documentaristico, ma non nel senso comune di denunciare una specifica situazione o evento, piuttosto nella volontà di rendere possibile un apprendimento, privando la realtà di attimi, istanti, in cui la presenza viene denudata dell’identità che, seppure ancora visibile, è destinata all’immediata liquefazione e conseguente inglobazione nello spazio e nell’evento. In questo fulmineo passaggio i personaggi, resi organici da infiniti dettagli panoramici, si riflettono e compenetrano l’uno nell’altro. Sono dell’idea che, volutamente o no, questo atteggiamento fotografico, di cui sono innamorato, abbia di per sè una agenzia sugli eventi narrati.

Courtesy of the artist and kaufmann repetto Milan / New York Sembrano storie intrecciate ma distanti tra loro, quelle presenti in galleria; trama di un filo troppo velocemente e violentemente inserito nel vecchio tessuto della società contemporanea. Storie di solitudini spinte cosi forzatamente in relazione, che nel mio spettro di analisi rispecchiano il presente e la valanga di notizie e la loro continua trasmissione alla quale siamo continuamente esposti. Una moltitudine di networks composti da eventi dove le possibilità di confronto sembrano praticamente svolgersi in due soli modi: a interconnessione libera da direzione, dove il programma dell’identificazione è il controllo del movimento; o il movimento diretto a un luogo sottostante, comunemente chiamato subcultura, dove, dico, forse, lo spaziotempo diviene malleabile, autogestito, e dove il guardare diviene osservazione, il moto meditazione. RENATA FABBRI Elif Erkan "In the Off Hours” Il lavoro di Elif Erkan alla galleria Renata Fabbri segue un filone caro al progetto espositivo dello spazio: mostrare i lavori in un percorso installativo/partecipativo innescato dalla dialettica spettatore-ambiente-opera. Uno strumento interattivo essenziale per condurre lo spettatore a quell’intimità che stimola il rapporto questione-indagine sull’argomento predisposto dall’artista.

Courtesy of the artist and Renata Fabbri galley, Milan Il tragitto sembra una seduta di meditazione trascendentale: inizia dalle profondità dell’abisso per approdare, strada facendo, ad una apparente terra ferma, per poi, forse volutamente, ricadere in una immersione interiore, dove, da osservatore, guardarsi dall’esterno. Ovviamente sono presenti vie di fuga, ma qui l’inconscio sembra seguire un percorso gia tracciato. In questo cammino viscerale Elif Erkan svela una ricerca apertamente critica e volta al denudamento di una specifica questione eco-sociale di primaria importanza, ma ahimè, continuamente annebbiata e sfruttata dal sistema del profitto, e soffocata da uno dei più comuni bisogni della società: lo svago unito al turismo, qui raccontato attraverso una elaborata analisi sul traffico marittimo delle navi da crociera e il loro assurdo carico inquinante. Macchia velenosa subliminalmente accettata per continuare a soddisfare le nostre diverse assuefazioni.

Courtesy of the artist and Renata Fabbri galley, Milan È bello allora nell’immaginazione infantile credere di scorgere all’orizzonte navi sapientemente costruite a forma di giganti tazze di water, dove al loro interno, tra schizzi giocosi e Bloody Mary a bordo tazza galleggiano migliaia di individui votati all’ingrasso. Una matrice di consumo piuttosto meschina, e allo stesso tempo, una allegoria precisa della situazione umana all’interno del sistema capitalista. A galla, reclusi in spazi ristretti, dipendenti da carote e bastoni, ma al sicuro in un costante servizio e stabili su una fittizia culla, solcano con coraggio oceani pericolosamente mutevoli e interconnessi. Non credo affatto che Elif volesse intendere nessuna di queste mie antipatie. È sempre e solo la mia opinione inacidita, (tanto più adesso che un popolo innocente e particolarmente pacifico viene aggredito da una potenza militare paranoica e macista) che la critica sociale si fa di per sè incazzata senza mezzi termini e permissività. Fortunatamente, un poco di questo spirito lo ritrovo nell’intenzione linguistica dell’artista. Oggetti ready-made dal passato rifiutati, sculture dal simbolismo provocante, riproposta di impasti compostabili creati appositamente per le opere, ribaltano appunto le modalità superficiali e di comodità d’uso dell’argomento trattato, nell’intento, credo, di provocare nell’osservatore quel senso di reazione e intraprendenza, tanto prezioso, per la cura di queste maniere di logica commerciale tanto distruttive quanto appetitose. Un poco come il rapporto con il riflesso dello specchio, l’immagine delle opere ti pone in un luogo di sperimentazione, quello dell’errore, dove il sentimento di responsabilità prevale prepotentemente, e dove di conseguenza la sensazione più diretta è il sentirsi dannatamente presenti e partecipi dell’era antropocentrica. Ma perlomeno, e qui mi ripeto, la spinta che nasce da tale osservazione stimola quella confidenza che ci spinge ad andare oltre queste barriere.




Courtesy of the artist and Renata Fabbri galley, Milan La fusione di elementi geologici e plastici, a conformazione perfettamente bilanciata, quasi spontanea, incontrollata, diviene l’ennesimo smacco perpetuato dall’artista nei confronti della dittatura ormai imposta da secoli alla materia. E mi domando: quali saranno le qualità pragmatiche della matericità che stiamo dimenticando? come è possibile che non riusciamo a produrre/formare una concretezza abile da potersi connettere direttamente con la organicità naturale di tutto l’altro? Manchiamo forse di qualche speciale sensitività?

Courtesy of the artist and Renata Fabbri galley, Milan Evidente è la capacità mancata nel compiere questo passo fondamentale. Come nelle navi da crociera, ogni intento viene sfruttato per alimentare la macchina del profitto, e ciò che sembrano passi in avanti, come l’industria ecologica o ambientale, in effetti sono solo mere sostituzioni di immagine allo sporco lavoro che continua ad esistere. Per questo Elif sembra suggerire che è arrivato il momento di fare attenzione ad ogni singolo passo, ad ogni scelta che il passo comporta, e resistere all’alienazione di una vita diretta dall’abuso, per corrispondervi, attraverso le proprie competenze, azioni cariche di integrazione, alimentando cosi, in maniera complessa e continua, quell’unico motore vero e reale e improprio del beneficio collettivo. CLIMA GALLERY Rebecca Ackroyd, Agata Ingarden, Diane Severin Nguyen, Cezary Poniatowski, "A Glimpse of the Setting Remains" Curated by Giovanna Manzotti Nonostante le croste radioattive, impianti liquidi di isolamento, gentili meccanismi di domesticatizzazione varia ed eventuali discorsi glamour su attici illuminati al neon, resto comunque, giù nel basso, felice di essere figlio di questo tempo. Sono grato, e non so come spiegarlo, di essere stato riportato indietro da continue ripercussioni storiche, forse opportune, ma in particolare, di essere stato ricondotto ora e lasciato qui in Italia, ad osservare, con la pazienza meditativa di un pescatore, le vicissitudini evolutive di un territorio che per troppo tempo ha vissuto della sola identità storica di fatti e persone antiche, e che quando finalmente ha rivolto lo sguardo al nuovo, fuori dalla botola, si è accorto di essere drammaticamente in ritardo. A perdere treni impari ad arrivare in orario, e dopo decenni di ‘boh’ i terreni della sperimentazione che sono stati diseredati, poi saccheggiati, lasciano l’oggi di questa nazione in uno stato di ‘maggese’ con un potenziale di espressione creativa enorme.

Courtesy of the artist and Clima galley, Milan Quindi eccomi a godermi una città come Milano, in passato così spaventosamente grigia ed incazzata, con le sue innumerevoli occasioni e tentatativi sinergicamente creativi dei suo abitanti, e le relative proposte-opportunistiche delle varie specificità artistico-intelletuali del panorama contemporaneo. La Milano internazionale conosciuta al mondo è una Milano consumistica e globalizzata, fashionista, padrona di un imperativo unidimensionale, dove ogni proposta fa un apparizione una tantum, e durante la quale, è assoluta protagonista del suo potere, ma poi finita la festa, destituita in modo decisivo e definitivo. Dimenticata. Questo carattere opportunistico, questo dogmatismo chic del mercato, sta finalmente abbassando la guardia, perdendo punti e prendendo schiaffi: messo all’angolo, incredibilmente alle corde, da un movimento coordinato di indagini artistiche, incredibilmente regalatoci da artist3, giovanissimi, e da altrettante young gallerie e spazi e curatori indipendenti, con focus alternativo su un altro tipo di opportunismo, ovvero l’apertura critica sulla specificità dell’oggetto osservato e la qualità dell’eco che ritorna quando indagato. Trovo che questo valoroso impegno non consumi ogni proposta creativa in maniera vorace e frettolosa, ma anzi lasci a l’idea e al suo fare artistico, infinite possibilità di correlazione e interdipendenza con fattori di ricerca comune.

Tutto questo per presentare e descrivere ‘ A Glimpse of the Setting Remains’, visibile fino al 22 Marzo alla Clima Gallery, in via Stradella 5 a Milano. Questa collettiva curata sapientemente da Giovanna Manzotti, porta in mostra lavori pittorici-installativi di Rebecca Ackroyd, installazioni-scultoree di Agata Ingarden, immagini video-fotografiche della Diane Severin Nguyen, bassorilievi-tessili e multi-materici dell’artista Cezary Poniatowski. Gli oggetti-opere disposti nello spazio della galleria sono l’esatta sinapsi di quanto detto sopra, cioè materialità sperimentale e resa avanguardistica dal rapporto diversificato tra forma-soggetto-luogo-contenuto-sostanza. Posizionata sullo stesso tavolo da lavoro, questa indagine sulla composizione e l’analisi teorica del processo e del suo ritorno, sostituisce puntualmente quella datata classicità discussa in precedenza, quell’interesse storico accomodato sulla stabilità ordinata dell’oggettività schiavizzata al solo bene del consumo rapido (minimo sforzo, zero novità, e manciate di memorie soddisfacenti).

Courtesy of the artist and Clima galley, Milan Di risposta i lavori di questi giovani artisti, nella loro reciprocità, offrono chiaramente questo messaggio di rinnovo, quasi riciclante. I formati polarizzanti, lo spettro alternato di scelte estetiche differenti, e le argomentazioni molteplici, fanno emergere l’aspetto collettivo nel perseguire le tracce di frequenze comuni sull’ambiente in cui essi si esprimono. Vibrano di un viscerale-tecnico e del suo carattere riconosciuto di differenti possibilità divulgatrici. Una estensione simil-cibernetica della materialità e del suo utilizzo nel futuro prossimo, nel campo esteso delle molteplicità.

Courtesy of the artist and Clima galley, Milan ENGLISH VERSION ORDET Jon Rafman '₳Ɽ฿ł₮ɆⱤ Ø₣ ₩ØⱤⱠĐ₴' The only appropriate and respectful way I can use to describe the work of Jon Rafman, without falling into the pitfalls technologically-Inclined of the now furrowed cyborg culture and the various evolutions given by artificial intelligence, could be to bring back here below, for hours in a disturbed-undisturbed all that has come to me, I’m coming and will surely come to mind, as in any similar situation post-weekend crazy, wallowing awake in the puddles of the unconscious and drawing ephemeral reasons, and subtly reason on the multiple performative possibilities of the individual in the social… This behavior, if you like defense, is positioned as a critique of the current saturation-date of representative-representative-performative images and the economic value attributed to them by the capitalist system. In particular to the consequent gradual loss of human virtues replaced by an increasingly global apathetic-irrational-ironic-ridiculous character, necessary to maintain through demonstration, the mainstream attention so precious to the global engine based on the exchange of goods. And here I am, then, lying in a park bau, Sunday, apparently reflective, to analyze an artistic work, I think as very few examples, explicitly narrate the fluidizing transience of the current reality of which we are part, through the exploration of a language, without going too far, among the most representative of the contemporary artistic avant-garde and effective in this culture of information overexposure. What drives me to write it is the obstinate and enormous speculation that Rafman makes (on display in the independent space ORDET until March 26) on the theme of identity, raped modeled, and continuously subjected to the digital invasion and its interaction formats so infinitely extended to make the subjectivity capable of mutagenesis and mergers to every single physical interaction. I find that the strength of the artistic video works and animation gamer presented lies precisely in the variable of the digital format, the transformation that occurs to any principle of form and placement, and the content socio-political identification pushed to ballast in the shoal of the narrative and continuously made to emerge, for instants, through the representation of disturbing archetypal contexts. The stories told to us support human parables on the complete abnegation of the physical and mental wills, at the expense of an increasingly necessary control offered by innocent mechanisms of media disclosure. Although the protagonists of these novels are still us, beings % rational and independent', the mechanism that oversees its movements seems to have another nature. A computational and arithmetic organ, with the sole purpose of proliferating its process/program. The full-length video work of the 2021 Minor Daemon (to watch in full, without scheduled hours, then choose the appropriate time), in total Rafman-gaming style, with references to his previous Dream Journal' (presented at Spruth Magers in Berlin and then at the Venice Biennale in 2019), tells, or better translates (IMO- in my opinion), through the use of powerful relations image-sound and rare discursive parts saturated with concepts, an imaginary (or maybe not) dystopian/utopian future where we, spectators participating in a Virtual Reality, deprived of any motor activity, live as avatars continuous dramas originating from a multi-dreamlike dimension, where the unpredictability and the obvious inadequacy to face and react to any difficulties, to confront the problems, result in an almost total abandonment of the sense of responsibility, slipping, gradually, to the awareness of an elective and sadistic opportunity, that is, the proliferation of violence as the only possible act and devoted to supremacy. Fortunately for me, I do not understand if it is a complaint or better a description of a passive reality but present, daily, where the individual ¿user' finds itself as the only means for the comparison of fears and fears, submit to the total self-sacrifice of physical life and embrace a tangible metaphysical reality, where bodily and mental pain, procured or received, is neither direct nor perceptible, but only a temporal fraction extrapolated from one of the many transmutation rituals performed in the continuous quest to improve ourselves. The truth, however, is that now to dictate the rules of the game is no longer an evolutionary process of mystical-natural and organic imprinting, but rather a resolution program created by needs expressed by contaminated, corrupt, and degraded mental faculties, developed on the product-concept consumption and that for this its ¿nature', does not know and cannot know intimately the object represented, and in particular, its deepest peculiarity, its unquestionable character, that is to die, the game over. And maybe, unconsciously or not, that’s what all the research is built on. That is the possibility through the digital extension and its implicit structure-data, to persevere in the ancient human dream of continuity and immortality, an atrocious paradox that justifies the means to the end, but that, all in all, could be conveniently offered and provided to anyone who is willing or has economic qualities to do so. Also through convenient monthly installments. VIASATERNA Fabio Mauri 'Opere dall'Apocalisse' in collaboration with Studio Fabio Mauri and Hauser & Wirth VIASATERNA presents an anthological exhibition of one of the great masters of the Italian avant-garde: Fabio Mauri, multifaceted artist, painter, choreographer, founder among others of the magazine Setacci together with Pasolini, Mauri has made the artistic action the key to the transformation of the concept of pain collected from the burnt soils of the post-war period. The works on display, mostly unpublished drawings, remind the contemporary mannerism of painting encrusted with psychedelia, how the experimentation of sign and color can continuously merge in the multiple futures of the spectrum of artistic research and its extension on the two-dimensional format. Precisely, all his research is primary (or primordial?) in the history of modern art as a whole: from the early 70s he uses the performance, decontextualizing it politically from its previous use of propaganda, to adapt it to the language of denunciation against imperialist ideologies; formalizes the photographic development within the painting, investigates the screen and the prototype as manipulation structures and sound as a principle-vibration capable of disturbing objects and subjects. Mauri’s work is a continuum of signals, messages, reminiscent of fragility and fragmentation of art "remediable only through the interaction and resonance given by the presence of the observer". On this, he lays the foundations of ecological investigation. Is asked to a Venice cradle of the international culture of the time, through the use of a repeater and in various languages, what is nature? ' (The Numbers Malefic (installations),1978, of which a part visible today to the Castle of Rivoli), offering to everyone a personal critical idea on the issue in this regard together with that unsurpassed and often unbearable feeling of intellectual inaccuracy. A universal ignorance that seems possible to pamper only through the passion for research. In a fascinating documentary interview left in continuous projection in the last underground room of the gallery, an elderly and perennially green illuminating Fabio Mauri tells us the absolute and the present: anachronistic elements so characteristic of his work, reaffirming how necessary it is for our instinct of knowledge to accept the error factor, in calculation and judgment. In line with his 20 years as chair of experimental aesthetics at the University of L'Aquila, Mauri, in total ZEN style and response to a statement by Wittgenstein, declares: Art speaks only of what cannot be spoken of'. In the sense, I believe, that the interpretative expression of the artist, his creative motion, the impulse to translate the being of things and people and offer new windows to the world of observation, can emerge only from fields not cultivated, from unknown, misunderstood and neglected environments. Or, As Robert Frost says, the difference is that you choose to walk on less-traveled roads. Only there does the action produce depth, and at that level, the language seems to communicate independently, outside of our dictionaries, as, in a root system, it offers possibilities for growth, for expansion of survival. KAUFMAN REPETTO Talia Chetrit After the successes at the Maxxi Bulgari Prize in 2018 and the recent 2019 exhibitions at Villa D'Este in Tivoli and Macro in Rome, Talia Chetrit (1982) returns to Italy to present her photographic works in the spaces of Kaufmann Repetto in Milan, which for content and research, correspond to the tasks of the Washington D.C. Chetrit takes advantage of this context to rethink its media in a temporal sense. The photographic body represents a mid-term retrospective, retracing works frozen over 20 years. Starting from the adolescent period to get to the present, the corpus becomes timeless through continuous predisposition portraiture suited to an alienated fragility, where anyone with a mind-dependent on psychic time would have great difficulty in locating the preceding and subsequent moments. Open your eyes! some values and artistic choices reveal the photographic matrix through fascinating grenades of the analog support, thus offering the general concept of representation, an ultimatum, specific merit to decadence, to the limit, a final intention with the purposeful outcome. The perspectives of the narration of Talia Chetrit, even in the few portraits on display and in her only self-portrait in adolescence, denote, in the setting, a character of documentary type, but not in the common sense of denouncing a specific situation or event, rather in the will to make possible learning, depriving the reality of moments, instants, in which the presence is denuded of the identity that, although still visible, is destined to the immediate liquefaction and consequent incorporation in space and event. In this lightning-fast passage the characters, made organic by infinite panoramic details, are reflected and penetrate each other. I am of the idea that, intentionally or not, this photographic attitude, of which I am in love, has in itself an agency about the events narrated. They seem to be intertwined but distant stories, those in the gallery; the plot of a thread too quickly and violently inserted into the old fabric of contemporary society. Stories of solitude pushed so forcibly in relation, that in my spectrum of analysis they reflect the present and the avalanche of news and their continuous transmission to which we are continually exposed. A multitude of networks composed of events where the possibilities of confrontation seem practically to take place in only two ways: a free-of-direction interconnection, where the identification program is the control of the movement; or the direct movement to an underlying place, commonly called subculture, where, I say, perhaps, the spacetime becomes malleable, self-managed, and where they look becomes observation, the moving meditation. RENATA FABBRI Elif Eran "In the Off Hours” It is beautiful in the childish imagination to believe to see on the horizon skillfully built ships in the shape of giant cups of the toilet, where inside, between playful sketches and Bloody Mary on the cup float thousands of individuals devoted to fattening. A rather petty matrix of consumption, and at the same time, a precise allegory of the human situation within the capitalist system. Afloat, confined in confined spaces, dependent on carrots and sticks, but safe in constant service and stable on a fictitious cradle, they courageously plow dangerously changing and interconnected oceans. I don’t think Elif meant any of my dislikes at all. It is always and only my opinion soured, (especially now that an innocent and particularly peaceful people is attacked by a paranoid military power and sexist) that the social criticism is itself angry bluntly and permissive. Fortunately, a little of this spirit I find in the linguistic intention of the artist. Ready-made objects from the past rejected, sculptures with provocative symbolism, repurposed of compostable dough created specifically for the works, overturn the superficial and convenient modalities of use of the topic treated, in the intent, I believe, to provoke in the observer that sense of reaction and resourcefulness, so valuable, for the care of these manners of commercial logic as destructive as appetizing. A little like the relationship with the reflection of the mirror, the image of the works puts you in a place of experimentation, that of error, where the feeling of responsibility prevails overbearing, and where, as a result, the most direct sensation is the feeling of being damned present and participating in the anthropocentric era. But at least, and here I repeat, the thrust that arises from this observation stimulates that confidence that pushes us to go beyond these barriers. The fusion of geological and plastic elements, with perfectly balanced conformation, almost spontaneous, uncontrolled, becomes yet another setback perpetuated by the artist against the dictatorship imposed for centuries on the matter. And I wonder: what will be the pragmatic qualities of materiality that we are forgetting? How is it possible that we can not produce/ form practicality able to connect directly with the natural organicity of all the others? Are we missing any special sensibilities? There is a clear lack of ability to take this fundamental step. As in cruise ships, every intent is exploited to fuel the profit machine, and what seems to be breakthroughs, like the ecological or environmental industry, are mere image replacements to the dirty work that continues to exist. This is why Elif seems to suggest that the time has come to pay attention to every single step, to every choice that the step entails, and to resist the alienation of a life directed by abuse, to correspond, through their skills, actions full of integration, thus feeding, in a complex and continuous manner, that one true and real and improper motor of the collective benefit. CLIMA GALLERY Rebecca Ackroyd, Agata Ingarden, Diane Severin Nguyen, Cezary Poniatowski, "A Glimpse of the Setting Remains" Curated by Giovanna Manzotti All this to present and describe A. Glimpse of the Setting Remains', visible until March 22 at the Clima Gallery, via Stradella 5 in Milan. This group show, curated by Giovanna Manzotti, showcases paintings and installations by Rebecca Ackroyd, sculptural installations by Agata Ingarden, video-photographic images by Diane Severin Nguyen, bas-reliefs, and multi-textile material by the artist Cezary Poniatowski. The objects-works arranged in the gallery space are the exact synapses of the above, that is, experimental materiality and made avant-garde by the diversified relationship between form-subject-place-content-substance. Positioned on the same work table, this investigation into the composition and theoretical analysis of the process and its return, punctually replaces the outdated classicism discussed above, that historical interest accommodated on the orderly stability of the enslaved objectivity only for the sake of rapid consumption (minimum effort, zero novelty, and handfuls of satisfactory memories). In response, the works of these young artists, in their reciprocity, clearly offer this message of renewal, almost recycling. The polarizing formats, the alternating spectrum of different aesthetic choices, and the multiple arguments bring out the collective aspect in pursuing the traces of common frequencies on the environment in which they are expressed. They vibrate with a visceral-technical and recognized the character of different dissemination possibilities. A cybernetic extension of materiality and its use soon, in the extended field of multiplicity. All this to present and describe A. Glimpse of the Setting Remains', visible until March 22 at the Clima Gallery, via Stradella 5 in Milan. This group show, curated by Giovanna Manzotti, showcases paintings and installations by Rebecca Ackroyd, sculptural installations by Agata Ingarden, video-photographic images by Diane Severin Nguyen, bas-reliefs, and multi-textile material by the artist Cezary Poniatowski. The objects-works arranged in the gallery space are the exact synapses of the above, that is, experimental materiality and made avant-garde by the diversified relationship between form-subject-place-content-substance. Positioned on the same work table, this investigation into the composition and theoretical analysis of the process and its return, punctually replaces the outdated classicism discussed above, that historical interest accommodated on the orderly stability of the enslaved objectivity only for the sake of rapid consumption (minimum effort, zero novelty, and handfuls of satisfactory memories). In response, the works of these young artists, in their reciprocity, clearly offer this message of renewal, almost recycling. The polarizing formats, the alternating spectrum of different aesthetic choices, and the multiple arguments bring out the collective aspect in pursuing the traces of common frequencies on the environment in which they are expressed. They vibrate with a visceral-technical and recognized the character of different dissemination possibilities. A cybernetic extension of materiality and its use shortly, in the extended field of multiplicity.

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