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reading weeks: issue n.3 - ELECTRO // SPACE IS THE PLACE di Andrea Benedetti


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Nonostante l’electro sia uno dei generi di cui più si parla ultimamente, ci sono pochi articoli in giro. Libri nessuno. La questione è nota agli amanti di questo stile nato agli inizi degli anni ‘80 che sono costretti a tramandare notizie e dischi come vere e proprie leggende orali. Se entriamo ancora più nel dettaglio e cioè analisi musicali, tecniche e contenuti, le informazioni sono ancora più carenti. Sulla parte tecnica fortunatamente i numerosi video storici o di tutorial su YouTube colmano queste mancanze, ma sul resto le uniche fonti sono quasi solamente le interviste ai vari protagonisti del genere, vecchi e nuovi.



Il genere nasce ufficialmente con l’uscita nel 1982 di “Planet Rock di Afrika Bambaataa & The Soulsonic Force prodotto da Arthur Baker e John Robie, ma ha radici più antiche. Sicuramente le canzoni di riferimento di “Planet Rock” sono state “Trans Europe Express” (1977) e “Numbers” (1981) dei Kraftwerk, di cui il brano è sostanzialmente un mash up/cover con del rap sopra, ma anche le tante produzioni musicali che nel mondo iniziavano a mettere al centro strumenti elettronici al posto dei tradizionali strumenti acustici o elettrici.


Fra queste possiamo citare il pop etno futurista della Yellow Magic Orchestra, Isao Tomita e le sue rivisitazioni elettroniche della musica classica, il funk elettronico dei Parliament Funkadelic (grazie soprattutto all’apporto alle tastiere dell’inarrivabile Bernie Worrell), le sperimentazioni pop di John Foxx, dei Cabaret Voltaire e degli Human League e tantissimi altri artisti che, sfruttando la massiccia diffusione di strumentazione elettronica a basso costo nel mondo delle sette note, ha rimodellato la musica popolare dopo la sua prima grande trasformazione avvenuta con l’elettrificazione di molti strumenti acustici, su tutti chitarra e basso.



Quello che è successo verso la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 ha avuto però un impatto maggiore perché è avvenuto di pari passo con una serie di innovazioni nel nostro modo di vivere quotidiano che ormai ci sembrano normali, ma che prima non lo erano come la televisione a colori, i computer desktop e i telefoni cellulari. La musica sembrava improvvisamente al passo con i tempi e molti gruppi rock vennero messi da parte, aiutati dall’ondata iconoclasta punk, per lasciare spazio a contaminazioni elettroniche, a volte solo di facciata, ma spesso estremamente originali e propositive che hanno ridefinito la musica pop. Una delle prime innovazioni in questo senso è stato l’hip hop. Nato come stile spontaneo di reazione al degrado urbano, ha espresso l’urlo dei ghetti (il rap), la riappropriazione del corpo (la breakdance) e degli spazi (i graffiti). L’electro parte come sua emanazione e viene usata sia da breakers come colonna sonora alle loro battle più estreme, che dai rapper per provare flow e rime su ritmiche più originali.

Ma se il rap, mettendo al centro la parola ed il messaggio, ha subito accantonato quei ritmi troppo veloci, alcuni produttori hanno deciso di utilizzare quei beat sincopati per dare voce al cambiamento in corso. I vocoder hanno rimpiazzato i rapper e si sono incominciate a definire nuove regole non scritte nella stesura dei brani. Il beat profondo della TR 808 era il marchio di fabbrica su cui si incastravano synth e sequencer che sembravano venire da un altro pianeta. Improvvisamente l’electro diventava l’espressione migliore del futuro che ancora non c’era, ma che ci sembrava essere dietro l’angolo.




Dal 1983 la produzione di musica electro esplode in tutti gli Stati Uniti, dalla West Coast alla East Coast affermando una voglia di cambiamento mai vista prima e dando vita ad etichette che entreranno nella storia come Tommy Boy, Prism, Cutting, Streetwise, Techno Hop, Music Specialists e tante altre. Nella zona di New York i riferimenti erano ovviamente Afrika Bambaata & The Soulsonic Force che diedero alle stampe fra il 1982 ed il 1983 altri capolavori come “Looking for the perfect beat”, “Renegades of funk” e “Frantic situation”, ma c’erano anche i Warp 9 di Lotti Golden e Richard Scher con brani come “Nunk” e “Light Years Away”, i Planet Patrol di “Play at your own risk”, Hashim e la sua immortale “Al-Naafiysh (The Soul)”, gli Imperial Brothers di “Come to rock”, praticamente tutte le produzioni di John Robie dei primi anni ’80 anche con Arthur Baker, i Newcleus di “Jam on revenge”, “Automan” e “Destination Earth” e gli originari di Boston Jonzun Crew che con brani come “Pack Jam” e “Space is the place” hanno allargato gli orizzonti del genere. Nella zona di Los Angeles invece i riferimenti erano sicuramente gli L.A. Dream Team e la loro “Rockberry jam”, The Egyptian Lover ed il suo mondo egizio sexy futurista di “Egypt Egypt”, “Girls” e “On the Nile”, nonché il suo lavoro con gli Uncle Jamm’s Army , Arabian Prince/Professor X con “Panic Zone” (assieme agli N.W.A.) e “Professor X (saga)”, The Unknown Dj con “Beatronic” e “Break down” e Chris ‘The Glove’ Taylor con Ice T e la loro “Reckless”.


Invece a Miami i riferimenti erano sicuramente Pretty Tony e la sua seminale “Fix in the mix”, affiancato al suo lavoro con i Freestyle e le loro hit “Freestyle Express” e “The party has begun”, MC ADE con “Bass Rock Express” e Maggotron con “Welcome to the planet of bass”.


Infine abbiamo anche Detroit. Su Detroit il discorso è difficile perché un gruppo come i Cybotron che hanno inciso “Alleys of your mind” nel 1981 sono per me da ascrivere come gruppo wave e direi proto techno più che strettamente electro. Il loro brano più electro, “Clear” del 1983, deve infatti il suo arrangiamento più marcatamente electro al remix fatto da Jose “Animal” Diaz in quanto il brano originale aveva più un’impostazione wave. Lo stesso si può dire di tutta la prima produzione della Metroplex, che pur usando un ritmo sincopato tipico dell’electro, costruiva un immaginario diverso che unica cultura bianca e nera e che era a tutti gli effetti techno e non electro. In questo senso direi che il riferimento assoluto per l’electro a Detroit è sicuramente Erik Travis che con la sua I.O.S. ha sfornato tanti capolavori, da “Programming” in poi.



Questa fatta finora è in fondo una carrellata breve sui primi cinque/sei anni di questo genere che non mette in risalto tutti le componenti di questa rivoluzione silenziosa che è stata l’electro negli anni ’80, ma che ci rivela due filoni ben distinti: il primo è legato ad una sua mai abbandonata correlazione con l’hip hop e il secondo che, partendo dalle suggestioni afrofuturiste street dei Soulsonic Force e di gruppi funk anni ‘70 (Earth Wind & Fire e Funkadelic su tutti), si staccava dal racconto cruento dell’urbano o dalle pulsioni erotiche di molte produzioni di Los Angeles e Miami per cercare di delineare una visione futura e più in linea con le sonorità utilizzate. In questo senso i Jonzun Crew, Erik Travis e i Newcleus sono stati sicuramente un riferimento per la nuova scena electro che si sarebbe delineata negli anni ’90.



Infatti, dopo un periodo di stasi avvenuta verso la fine degli anni ’80, dal 1993 in poi c’è stata una vera propria rinascita del genere grazie soprattutto ad un album: “Bass Magnetic” degli AUX 88 su 430th West, l’etichetta dei Burden Brothers. Il gruppo di Detroit formato da Keith Tucker e Tommy Hamilton ha mescolato le migliori pulsioni bass di Miami e le visioni futuriste di Juan Atkins/Model 500 e Rik Davies in una formula perfetta che, anche grazie alla creazione della Direct Beat sempre da parte dei fratelli Burden, ha rimesso l’electro sulla mappa. Gli Aux 88 si definirono ‘techno bass’ proprio per rimarcare questa differenza dalla classica scena electro post hip hop e di fatto, anche se questo termine è stato dimenticato, hanno aiutato altri produttori a vedere al tipico beat electro come a un tool per scardinare lo spazio tempo e piegarlo alla discesa del futuro nel presente.





Da quel momento in poi tantissimi produttori hanno iniziato a seguire (o proseguire) quelle scelte come Dj Dijital, Posatronix, Shiver, Detroit In Effect (Dj Maaco), Carl Finlow e suoi vari progetti (Silicon Scally, Voice Stealer, Random Factor), Frank De Groodt (Sonar Base, The Operator, Fastgraph), Dexter, Cosmic Force, tutta la Serotonin Records (BPMF e John Selway), Kurt Baggaley (Scape One), DMX Crew, Andrea Parker, Radioactive Man, Phil Klein Antonhy Rother, Clatterbox, Boris Divider, Adult, Perspects, I-F, Alden Tyrell, Ultradyne, E.R.P. e ovviamente Drexciya e Gerald Donald (Dopplereffekt, Arpanet e mille altri pseudonimi). Quello che accomunava questi artisti, a parte rare eccezioni, era proprio una commistione perfetta fra titoli/concept dei brani e i suoni degli stessi.


La scienza, il futuro, lo spazio sono divenuti il centro di questa nuova ondata electro che, in maniera assolutamente naturale, si prefiggeva di dare voce alle speranze tradite dagli anni ‘90 post rave. La loro musica diveniva la migliore espressione delle idee umaniste futuriste della techno degli inizi e ha influenzato tantissimo la scena electro moderna: The Exaltics, Umwelt, Jensen Interceptor, Dj Overdose, Dez Williams, Dj Stingray, Galaxian, Zwischenwelt, Jauzas The Shining, Victoria Lukas (Zerkalo), Plant 43, N-TER, Federico Leocata



Non c’è brano electro che oggi non abbia riferimenti a elementi legati al futuro a allo spazio e la scienza, elementi questi che non vengono vissuti in maniera escapista, ma anche in maniera propositiva e di alternativa alla nostra organizzazione sociale o perlomeno alla nostra sostanziale incapacità di vivere assieme e di affrontare in maniera costruttiva le problematiche di gestione del nostro pianeta, dall’ambiente ai rapporti interpersonale.


L’electro diventa quindi non solo un genere musicale futuristico in senso sonoro, ma anche a livello concettuale e di proposta: rappresenta oggi più che una visione del futuro, una opzione su come vivere meglio il nostro presente con quel senso di sana utopia che non dovrebbe mai lasciare il nostro spirito.
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