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In conversation with: Ginevra Nervi



Fin da piccolissima, Ginevra Nervi cresce immersa in una quantità di stimoli ed input musicali dalle sonorità più eterogenee. Oggi, la fascinazione per la sperimentazione l'ha portata a sviluppare una sensibilità artistica poliedrica ed una visione completa tali da permetterle di imporsi in breve tempo nel campo della musica per il cinema. Abbiamo parlato un po' con lei di musica elettronica e dell'arte della composizione per immagini, ma anche del suo progetto solista con il quale ha recentemente portato una live session del suo ultimo singolo, P!2, all'interno del Teatro San Pietro di Genova - in anteprima su t-mag, il video della performance.



Una delle prime cose che vorrei chiederti per iniziare: hai sempre voluto fare musica per cinema?


No. In realtà, quando ho iniziato a studiare musica da piccola - prima da autodidatta, poi attraverso un percorso di studi più tradizionale - mi sono sempre focalizzata sul mio progetto solista come autrice.


Ho iniziato abbastanza presto a scrivere, avrò avuto tredici anni. Intorno ai quindici ho iniziato ad avvicinarmi per la prima volta a vari software per comporre musica, poi, a diciotto anni, mi è capitata l’occasione di iniziare a collaborare con Pivio e Aldo De Scalzi, i due compositori, anche loro genovesi. Ho cominciato a collaborare con loro come autrice di brani originali, ma ho iniziato a lavorare anche come compositrice nel vero senso della parola abbastanza inconsapevolmente, a fine del 2018, quando ho scritto per la prima volta musica originale per un documentario della regista romana, Emanuela Tomassetti (ndr. “La Memoria del Condor”). Già in quel periodo, in realtà, qualcosa mi ronzava per la testa, il mondo della musica per l’immagine per me ha sempre avuto un certo fascino: non solo il mondo delle colonne sonore, ma anche quello della musica sperimentale rivolta quindi anche a performance teatrali, installazioni di arte contemporanea, visual art... tutto quello che connubio tra immagine e suono. Tuttavia, non mi ero mai immaginata come compositrice per un’opera filmica o per una serie tv o per un documentario. Oggi invece mi capita di vivere una sorta di divisione a fasi alterne nel mio lavoro, anche se non mi piace molto definirla tale: ci sono periodi in cui lavoro molto di più per la musica per le immagini e periodi in cui mi è capitato di lavorare di più per il mio progetto solista.



E quest’anno?


Quest’anno è stato molto strano, effettivamente. Seppur la situazione che stiamo vivendo sia inaspettata e incerta, dirò una cosa impopolare; nel 2020 ho avuto la possibilità di lavorare a molti progetti.

Nonostante il lockdown e le difficoltà lavorative che ci sono state e che hanno toccato tantissimo il nostro settore, continuare a lavorare via remoto mi ha aiutato molto. Penso di non essere l’unica a poterlo confermare, noi compositori siamo abituati a lavorare sovente da remoto, in fondo. Quindi sì, quest’anno è stato un anno molto intenso sotto molteplici punti di vista.



Nonostante tutto, diresti che per te è stato un anno prolifico a livello creativo?


Direi di sì. Anche grazie a progetti che mi sono entrati a fine 2019 e i lavori che dovevo portare a termine fortunatamente non si sono bloccati. Ad esempio, mi è capitato di lavorare con un collega, Carmelo Emanuele Patti, come assistente alla produzione della colonna sonora di Giorgio Giampà per il film messicano, “50 (o dos ballenas se encuentran en la playa)”. Eravamo già coinvolti sul progetto e in lockdown abbiamo continuato a lavorare ciascuno da remoto: Carmelo lavorava da Milano, io da Genova e Giampà da Roma. Tuttavia è andato tutto bene, addirittura il film è stato selezionato per la Settimana Internazionale della Critica a Venezia di quest’anno. Allo stesso modo ero coinvolta su un altro progetto partito l’anno scorso, ovvero il film di Mauro Mancini “Non Odiare”, anch’esso in concorso alla settimana internazionale della critica, e su quel film avevo scritto un brano originale insieme a Pivio e Aldo De Scalzi, con loro ogni tanto torno a collaborare in veste di autrice.

Poi in realtà sono entrati anche lavori nuovi in lockdown, alcuni provenienti oltreoceano; ho chiuso due cortometraggi dell’American Film Institute molto belli dei quali sono autrice della colonna sonora.



Com’è stato a livello emotivo e pratico lavorare in lockdown?


Da un lato è stato, appunto, un periodo molto prolifico...sono abituata a lavorare anche sotto pressione per molto tempo, “barricata” a casa e inchiodata alla mia postazione. Negli anni sono riuscita a costruirmi uno studio domestico ben equipaggiato, quindi tecnicamente sono autonoma e non ho necessità di appoggiarmi ad altri studi; ho a disposizione tutto ciò che mi serve. Nonostante il lockdown, non ho avuto difficoltà a ricevere stimoli o input: avevo così tanti progetti a cui lavorare che mi si è innescato una sorta “clock” creativo, finivo un progetto e ne attaccavo un altro. Quest’anno mi sono sentita molto energica e non ho avuto, stranamente, mai un calo di tensione creativa. Il problema più grande l’ho riscontrato sul versante della comunicazione con gli altri: mi è capitato spesso di dover dialogare con delle persone che in quel momento, magari, avevano più difficoltà nel viversi una situazione del genere. Puoi provare a stare vicino ai colleghi e collaboratori con cui devi relazionarti, ma mi è capitato spesso di non riuscire a rompere il muro di una comunicazione virtuale che è ricca di insidie... soprattutto quando devi lavorare con tante altre persone, secondo me, resta di vitale importanza il contatto umano diretto. Personalmente, la cosa che ho sofferto di più durante il lockdown è stata proprio la comunicazione.



Aldilà del lockdown, hai detto che finisci un progetto e ne cominci subito un altro: di solito è questo il tuo modus operandi? Mi riferisco in particolare alla divisione tra il tuo essere compositrice e il tuo progetto musicale personale a cui facevi riferimento prima...


Effettivamente, per entrambe le cose, ho due modus operandi diversi (ride). Per quanto riguarda il mio progetto solista sono molto lenta, sono veramente una tartaruga... tra una tartaruga e un bradipo (ride) perchè in quel caso sono padrona del mezzo che sto guidando e ho molta più libertà. Questa non vuole essere una critica alla professione da compositrice, però, sul mio progetto solista ho molto più spazio di manovra; non devo rispondere a un committente o lavorare su qualcosa che comunque non nasce solo da me. Quando devo lavorare come compositrice, sono io che devo adattarmi a quelle che sono le richieste del regista, della produzione, in definitiva della macchina che gira intorno alla sfera cinematografica. Per quanto riguarda il mio, invece, posso prendermi tempi più lunghi e solitamente lo faccio perchè la fase creativa è molto più immersiva. Cerco di farlo anche con tutti gli altri progetti, tuttavia, per ovvi motivi, le scadenze sono molto serrate e non puoi dire alla produzione “ho bisogno di molto più tempo perchè vorrei immergermi totalmente in questa ricerca sonora...” (ride)





A questo proposito, so che le produzioni spesso hanno delle tempistiche cui spesso anche i registi fanno fatica a stare dietro, quindi mi domando del composer... come ti approcci in questo senso? Ti rapporti con il regista, o maggiormente con la produzione...? E soprattuto con le serie televisive che hanno vari registi, ma che fondamentalmente girano intorno alla visione dello showrunner, una figura completamente diversa...


Dipende perchè... ad esempio nei progetti sui quali sono stata coinvolta come autrice sincronizzata, ossia a seguito di selezione dal mio repertorio da parte della produzione, non c’è molta interazione, come per “Skam Italia 4” (ndr. serie Netflix). Sui brani originali invece è un po’ diverso; per “Il Processo” (ndr. serie Mediaset) ho avuto modo di interagire con tutto il meccanismo della produzione musicale della serie poiché stavo lavorando anche come assistente del compositore Giorgio Giampà per la colonna sonora. Il regista Stefano Lodovichi aveva avuto modo di ascoltare del materiale del mio progetto solista ed è nata una collaborazione che mi ha portata a firmare i brani originali della serie; è stato un lavoro scritto ad hoc. Ci sono dei registi che amano parlare molto con il compositore, altri che magari dialogano meno ma fino ad ora ho avuto la fortuna di interagire con delle persone molto aperte che mi hanno lasciato sempre spazio di manovra; uno tra questi è Antonio Castaldo, il regista di “Fuoco Sacro”, ovvero il documentario per il quale ho scritto la colonna sonora originale nonché terzo progetto con cui sono andata a Venezia quest’anno, una cosa assurda!



Tornando un poindietro... mi hai detto che hai cominciato molto presto a scrivere, prima di approcciarti all’elettronica, cosa usavi per comporre?


Un “classicone”: ho iniziato con la chitarra acustica (ride) in realtà avevamo anche un pianoforte a casa che però odiavo alla follia perchè... insomma mia madre è pianista e ha suonato per molti anni, io dovevo fare la bastian contraria di casa; il pianoforte non lo voglio, non mi piace, voglio suonare la chitarra acustica. A dirla tutta, volevo suonare la chitarra elettrica, che è arrivata dopo... ma dopo un po’ di tentativi ho capito che il pianoforte mi dava molti più stimoli perché suonare la chitarra... è un casino (ride)



Come gusti musicali da dove arrivi?


Io sono del ’94 ma ho sempre ascoltato musica un po’ datata, forse, per la mia età... comunque mi piaceva di tutto; a casa abbiamo sempre ascoltato tantissima musica anche proveniente da altre culture e tradizioni musicali. Il primo ricordo musicale che ho è legato ad un disco dei Penguin Cafe Orchestra, “Signs of Life”, di mia madre, come tutti gli altri in realtà; si chiama “music for a found harmonium”, è un brano con un andamento molto incalzante, molto dinamico e più vicino al folk. Effettivamente fin da piccola ho ascoltato anche prodotti musicali fuori dal radar dei principali mercati, quindi non solo musica che puoi raggiungere più facilmente, ad esempio partendo da ciò che ascoltano i tuoi genitori, sai... i Beatles, i Rolling Stones, oppure i Pink Floyd o il cantautorato... anche quello mi è passato per le orecchie ovviamente, però ciò che ricordo di più come imprinting musicale è qualcosa che arriva da più lontano. Mi ricordo che la domenica mattina, ogni tanto, passava dall’impianto di casa mia la colonna sonora di Bjork per il film “Dancer in the Dark” di Lars Von Trier. L’album apriva con questo brano orchestrale che mi piaceva da morire, poi arrivava la sua voce e io pensavo “ma che roba strana”, non riuscivo ad inquadrarlo, ero piccola, non capivo se mi piacesse o meno. Crescendo ho capito che mi piaceva eccome. Ho iniziato a formare un mio gusto musicale attorno ai tredici anni grazie anche al web e al boom di Youtube ed MTV, potevo accedere velocemente a tutta la musica che volevo.


Citando Bjork, dunque, c’è stata una spinta verso l’elettronica già in giovane età... ma come è entrata poi effettivamente nella tua vita?


L’elettronica è arrivata realmente come risposta ad un’esigenza tecnica: volevo scrivere i miei brani, volevo capire come mettere insieme delle idee musicali che vivevano solo nella mia testa... idee che in realtà erano sovrapposizioni di linee melodiche perchè le cantavo sul niente; cercavo di immaginare quali potessero essere i layers di strumentazione al di sotto di quelle melodie; una batteria, un basso, un synth… Volevo capire come mettere tutto questo dentro un mp3. Volevo arrivare ad ascoltare le cose che avevo realizzato nella mia testa. Da lì è partito tutto il mio voler comprendere come funzionassero le cose, ed è stato in quel momento che ho incominciato a gironzolare di studio in studio, da tutorial a tutorial. Una volta compreso che per iniziare a fare quello che volessi fare, le basi sarebbero state un computer, una scheda audio e un programma per fare musica, mi si è aperto un mondo.


Oggi che cosa usi per comporre?


Mi sposto un po’ su diverse piattaforme, ma principalmente uso Logic ProX. Mi trovo bene sia per la scrittura che per la stesura delle composizioni per immagini, la gestione con la parte video è abbastanza funzionale. Poi ProTools, Ableton... Penso che siamo arrivati ad un punto di sviluppo tecnologico tale che non esista un programma migliore di un altro, ma ci sia solo quello che ti serve in quel momento specifico per realizzare qualcosa di altrettanto specifico. In più se devo lavorare con altre persone che utilizzano un software diverso dal mio, devo poter passare loro il progetto. Preferisco mantenere una finestra di “dialogo tecnologico” che mi permetta di interagire con più persone possibili piuttosto che il contrario, a volte ho un po’ paura di chiudermi da sola dentro delle “scatole”...poi non riesco a restare focalizzata solo su una cosa per tanto tempo, e lo stesso vale per il tipo di tecnologia che uso, dopo un po’ mi annoio...


Questo vale anche per il tuo progetto personale? Ti annoi, dopo un po', nel fare le stesse cose?


Assolutamente sì ed è anche uno dei motivi per i quali ho pochissima musica pubblica del mio progetto personale, anzi, ho solo un brano che è “P!2” (ndr. data di uscita: 21 febbraio 2020). Mi immergo talmente tanto nella fase di composizione che capita, quando chiudo il pezzo, di essere già andata oltre. Il brano mi suona vecchio, come se non mi rappresentasse più, in qualche modo. Razionalmente mi rendo conto che non sia così poichè arriva da un percorso che ho fatto io, non l’ha fatto un’altra Ginevra.


Il mercato della musica odierno è assolutamente rapido e volatile...


Da questo punto di vista, non riesco proprio a relazionarmi con il sistema e, ti dirò, ho vissuto un periodo, lo scorso anno e quello ancora prima, di crisi. Mi sono chiesta se non fosse stato il caso di piegarsi a quelle che sono le regole di mercato, ma poi mi sono detta che se comunque c’è già una parte del mio lavoro che implica per sua natura lo scendere a compromessi, rispettare regole di mercato e tempistiche molto strette, eccetera... ecco, questa modalità non deve pesare sul mio progetto solista. Ho bisogno di essere padrona di quello che faccio e pensare che debba rinunciare a quello che non è altro che il mio approccio più istintivo alla musica, allora... non vorrei scrivere più. Piuttosto mi concentrerei su una professione da ghost producer o da producer per progetti non miei, anche se credo che intorno a questa professione, che può essere vista come una figura più “industriale”, ruotino molti falsi miti, come se il producer debba sfornare una hit dopo l’altra... Se dovessimo chiedere a produttori di un certo tipo di raccontarci il loro workflow, ci direbbero che hanno i propri tempi creativi e che hanno bisogno di rispettarli.



Come funziona il tuo processo di scrittura dei testi?


Ci sono stati dei momenti in cui avevo un approccio alla scrittura di musica e testo molto più immediato. A volte mi capita di scrivere dei brani direttamente allo strumento e assieme alla linea melodica scrivo anche il testo. Il processo per il quale mi arrivi il testo mentre scrivo penso sia legato ad affinità sonore e musicali tra questi elementi... mi piace dare rilievo al suono delle parole e anche al modo in cui vengono pronunciate, è una cosa che mi affascina moltissimo. In altri casi, invece, mi è capitato di scrivere testi a brano totalmente chiuso e in quel caso diventa un po’ più insidioso. Tendo ad essere ermetica nella scrittura, mi piace giocare soffermandomi anche su singole parole.



A proposito del suono delle parole, è interessante il tuo approccio alla ricerca vocale: come nasce e cosa cerchi nella sperimentazione sulla voce?


In questo periodo mi interessa molto la “granularità” del suono ed è qualcosa che sto sperimentando anche sulla voce. Mi piace interpretare ogni gesto musicale come l’insieme di oggetti più piccoli, che posso andare a spezzettare, decostruire e utilizzare come un elemento singolo…. Qualcosa di simile alla tecnica del puntinismo in pittura.



Dunque è un qualcosa di materiale?


Sì, personalmente vivo la musica molto concretamente nonostante di per sé non sia tangibile. Il suono esiste nel momento in cui lo percepisci, poi non c’è più; resta nella tua memoria. Oliver Sacks ci direbbe che è un’immagine impressa nella corteccia cerebrale, ma fisicamente e qualcosa di cui non possiamo avere un riscontro visivo immediato, non vediamo le frequenze. Sotto questo punto di vista la voce esercita un fascino ancora più forte. Il fatto che sia il nostro suono, generato dall’essere umano, la rende totalmente organica, ha un’impatto più forte. E’ incredibile quello che puoi fare con il tuo corpo e la tua voce, puoi mutarlo, modificarlo già a partire da te, la sorgente, se aggiungi la manipolazione in post produzione puoi arrivare a risultati potenzialmente infiniti... può diventare un ibrido tra il fisico e il sintetico, puoi usare la tua voce in un modo che magari non avresti considerato possibile. Penso a Demetrio Stratos oppure ai canti bulgari; trovo incredibile come queste donne utilizzino la propria voce. Quando mi approccio alla voce in questo senso cerco di andare sempre più in profondità nella pasta del suono.



C’è un compositore e/o una colonna sonora in particolare a cui fai riferimento per il tuo lavoro?

Su questa domanda potremmo non finire mai più; ho un po’ di nomi in mente, ma non so se riuscirò a risponderti (ride). C’è un compositore che amo alla follia, Cristobal Tapia De Veer, lui ha scritto la colonna sonora per la serie “Utopia”, “Dirk Gently”, “Black Mirror”, poi per molti film tra cui “La ragazza che sapeva troppo” con una colonna sonora che è incredibile... quello che mi piace di lui è come usa i samples di voce, forse è per quello che mi affascina molto. Il modo in cui usa il materiale musicale mi diverte moltissimo anche durante l’ascolto; è uno dei pochi compositori che in questo periodo ho piacere ad ascoltare anche separatamente dall’immagine e questa cosa mi risulta difficile con altri ma assieme a lui metto anche Hildur Guðnadóttir, che oltre che ad essere una compositrice è una violoncellista pazzesca, poi Mica Levi...ce ne sono tantissimi, veramente un mucchio. Ma, per rispondere a bruciapelo, oggi vorrei essere Cristobal Tapia De Veer, mi piace da morire.



La musica elettronica con il cinema ha un rapporto d’amore di lunga data che nasce addirittura negli anni ’50; certamente molto è cambiato da allora, ma secondo te ad oggi come mai c’è tutta questa ricerca di sonorità elettroniche per le immagini? Che cosa dà in più la musica elettronica al cinema?


Ti dico la cosa più brutta in prima battuta... ovvero il budget, perchè l’orchestra ha un costo umano e tecnologico e purtroppo ci sono sempre meno produzioni che hanno voglia di investirci, secondo me è tremendo perchè la musica la fa l’essere umano. Ok, la musica la può fare anche una macchina, con gli algoritmi, con la programmazione assistita virtuale, ma comunque quella macchina deve essere programmata da un essere umano. Se si potesse lavorare più spesso con l’orchestra e con musicisti in carne ed ossa, avremmo più possibilità di sperimentazione tra la musica elettronica e la musica strumentale, che poi è quello che vorrei fare tutti i giorni, cioè lavorare con un’orchestra in maniera elettronica o comunque non tradizionale. D’altra parte, l’aspetto della musica elettronica che affascina è la sua natura più plasmabile, intendo che hai un mezzo estremamente potente, pressoché infinito e adattivo. Oggi è così ma è stato un traguardo; agli inizi non lo era per niente. Chiunque ascolti una delle prime composizioni elettroniche di Karlheinz Stockhausen dubito ne resterebbe affascinato. Spesso la ricerca non suona bene, anzi il contrario, ma serve per mettere nuove basi per le produzioni che verranno.





Parliamo un podel video per il tuo singolo P!2 che è uscito in febbraio: da compositrice di musica per immagini, com’è stato far parte del processo “inverso”, ovvero da musica a videoclip?


E’ successa una cosa molto strana sul video di P!2. Ho lavorato con Sans Film, un team composto da Gabriele Ottino, Paolo Bertino e Sharon Ritossa. Avevo contattato Gabriele perchè mi piacevano molto i suoi video e gli ho dato carta bianca. Ci siamo confrontati su alcuni input, ricordo che uno degli stimoli visivi che avevamo in comune era un video dei Massive Attack con Cate Blanchett (ndr. “The Spoils” feat. Hope Sandoval); siamo arrivati ad avere le stesse suggestioni visive sul pezzo, anche se non ci eravamo parlati molto. Gli ho semplicemente detto: “Fai, vengo a Torino per girare, mi fido ciecamente”; quando sento un’alchimia personale con altri creativi, mi lascio andare, si innesca qualcosa di bello che ho la sensazione possa apportare qualcosa di più al progetto e in questo caso loro hanno fatto un lavoro incredibile. Poi il direttore della fotografia, Paolo Bertino, ha usato le luci in un modo stupendo…a tratti sembra computer grafica, ma in realtà non c’è praticamente nulla di eccessivamente post prodotto. Il concept del video era quello della mutazione, della trasformazione; volevamo giocare sul cambiamento che nella canzone è simbolico, è un mutamento interiore. Nel video abbiamo voluto giocare su questo con le luci e nel montaggio, ad esempio il lavoro di distorsione sul mio profilo che Gabriele ha fatto in apertura al video. Ho lavorato molto, molto bene con loro.



Progetti per il futuro?


Ho finito di lavorare all’EP prodotto assieme a Maurizio Borgna, a Torino. In questo momento sto lavorando a due film, sui i quali non posso dire ancora molto, ma uno è una produzione oltre oceano, mentre l’altra è italianissima e totalmente under 30. Poi sto continuando a scrivere molta musica nuova…






Photo: Sharon Ritossa

P!2  (Theater live session) - video realizzato da Alienside Studio - Edoardo Nervi e Lea Borniotto

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