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Il segreto è nell’intensità della visione

Updated: Sep 24, 2020

outro t-mag issue n.7 - PERSONA



Il concetto di community, ossia fondare un’unica grande alleanza, mi ha sempre affascinato fin dai miei primi passi nella musica elettronica.


Ho sempre accomunato la musica al concetto di resistenza e di conseguenza il concetto di community al concetto di militanza.

(C’è ancora qualcuno che pensa che la musica non sia un atto politico? Spero di no.)


Ho letto pagine e pagine di libri con occhi sognanti, lasciandomi cullare dal racconto di quanto fosse fenomenale la forza della community. Quel brivido che ti percorre dentro, che a me fa un po’ venire la pelle d’oca, quando realizzi di essere parte di un insieme di persone che condivide cruciali fili dell’anima. Quel così detto “fiume di persone” di cui fai parte quando sei a un concerto e smetti di sentirti goccia, ma ti senti fiume.


La cultura è “superorganica” -e una comunità è fatto culturale- e in quanto tale si basa appunto sull’organico: la società non è un essere umano anche se è composta da esseri umani. Questo, ci porta quindi a comprendere che, durante la mobilitazione e l’organizzazione di una comunità, bisogna sempre essere in grado di separare ciò che sta accadendo alla comunità stessa, in contrasto con ciò che sta accadendo ai singoli individui.


Ma nota bene: una community non è solo una raccolta di individui, ma un sistema socio-culturale e quindi, organizzato socialmente. Ciò significa che la comunità ha una vita propria che va oltre la somma di tutte le vite di tutti i suoi residenti. E’ un sistema di sistemi, composto da esperienze e informazioni apprese, piuttosto che da geni e cromosomi. Tutti gli elementi sociali o culturali di una comunità, dalla sua tecnologia alle sue convinzioni condivise, sono trasmessi e memorizzati attraverso simboli (intesi esclusivamente dal punto di vista sociologico).


Seguendo questi ragionamenti, direste che una community è tale, solo se radicalizzata in un determinato contesto spazio-temporale?

In molti, imputano internet come colpevole della scomparsa di quella energia unica prodotta da una community unita nella vita reale e geologicamente localizzata, eppure, seppur vi è della ragione alla base, le cose non mi tornano del tutto.

Certo, è vero, lo sappiamo tutti: Internet ha apportato enormi ed epocali cambiamenti al mondo ed il mondo musicale non ne è affatto sfuggito.


Ha cambiato i modi in cui ascoltiamo la musica, in cui la compriamo, in cui la scopriamo. Ha abbattuto le barriere etnologiche, ha velocizzato ogni cosa — come è giusto che faccia il processo tecnologico che, vorrei sottolineare, non dobbiamo temere.


Trovo ancora strepitoso, riuscire a poter ascoltare musica araba tradizionale comodamente seduta sul mio divano.

Trovo meno strepitoso, il vampiresco modus operandis delle majors, trovo frustrante quando la musica è prodotto commerciale e non artistico/culturale.

C’è chi sostiene che le e-mails, i social e gli smartphone ci connettano tra di

noi ma allo stesso tempo ci disconnettano, è vero? In parte.



Credo sia il momento di guardare il disegno più grande, allontanarsi dal dettaglio e guardare tutto dall’alto.

C’è un bel panorama quassù.

Quassù, capisco che internet ci ha dato una possibilità ancora maggiore: non avere limiti fisici spaziali, ma poterci sentire parte di una community globale, in cui ogni persona che si riconosce parte di questo gruppo sociale che siamo noi -noi gente club culture, noi gente della musica elettronica, noi gente della notte- può sentirsi fiume e non goccia.

Il sé individuale, così a lungo intrappolato nel mero corpo umano, non è forse libero di uscire dai suoi confini carnosi, esplorare i suoi interessi autentici e trovare altri con cui raggiungere la comunione? Questo prima non poteva accadere. Vi erano altre bellezze, sì. Ma vi era anche limitazione.

Boom: nicchia non è matematicamente sinonimo di qualità.

Non sorridete, lo so, è un po’ utopico. Ma questa pandemia globale con cui siamo drasticamente venuti a contatto, ci ha dato prova del fatto che la nostra community c’è, esiste e vuole esserci.

Alcuni diranno che la community on-line, non è lo stesso della community “quella vera”, alcuni diranno che non basta. Ed è vero, che non basta, per fortuna ci sono gli eventi internazionali ad unirci, c’è il ballo a farci sentire vicini anche se siamo stranieri.

Ma che possiamo dire a riguardo, se non che nemmeno la libreria di Spotify è la stessa di una libreria di dischi.

Questo è il mondo oggi e vorrei che queste righe fossero un appello, una chiamata alle armi se volete.

Vorrei che fosse un’istanza nel lasciare nel passato il passato e accettare la nostra condizione attuale in quanto uomini post-moderni.

Sapete, era il 1992, quando UR creò una sublabel il cui claim si è rivelato quanto mai profetico, quasi quanto 1984 di G. Orwell:

“The World Power Alliance was designed to bring the worlds minds together, to combat the medicore audio and visual programming being fed to the inhabitans of Earth, this programming is stagnating the minds of the people, building a wall between races and world peace. This wall must be destroyed, and it will fall.”.


Mi piacerebbe smettere di lottare l’uno contro l’altro, o anche solo smettere di ignorarci, ma lottare gli uni affianco agli altri contro la mediocrità, contro il becero modo in cui gli stilemi del nostro movimento vengono usati e sfruttati oggigiorno. Vorrei che l’obbiettivo finale cambiasse e non fosse il successo del singolo a discapito del prossimo quanto invece il potenziamento della comunità come forma di alleanza artistica e culturale.


Concludendo questo articolo, rincorro un’utopica idea, di una nuova Summer of Love, perché anche i nostri sogni si stanno sgretolando, perché il sogno americano non ci interessa più, anzi: eccoci qui, abbiamo bisogno di un nuovo sogno.

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