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Hypermaremma: rileggere il paesaggio attraverso l'arte

Updated: Apr 11

Hypermaremma invita la comunità a intraprendere un dialogo con l'ambiente circostante attraverso una costellazione di interventi artistici e musicali in Maremma - ancora più precisamente nella Maremma laziale.

Lì il paesaggio diventa parte integrante dell’opera e molto spesso del suo stesso significato.


Ma Hypermaremma è anche la storia di Giorgio Galotti, Carlo Pratis e Matteo d'Aloja. I tre, hanno avuto coraggio e sensibilità sufficienti da decidere di proiettare le loro energie in un luogo d’affezione personale e trasmetterlo ai visitatori attraverso l’arte. Di questo infatti, parla "Spazio Amato" che nella sua semplicità non ha forse bisogno di troppe spiegazioni ma che allo stesso tempo lascia a tutti lo spazio necessario per inserire il proprio ricordo all'interno di quello spazio amato. O che quello spazio, iniziano ad amarlo proprio in quel momento.


Di questo e di tradizioni e radici parla "Rune" l'ultima opera aggiunta alla stagione 2023 che con una forte dose di suggestione e magia, parla del racconto popolare di come gli abitanti del luogo da anni costruiscano capanne e sculture sulla spiaggia con i rami.

La magia delle opere più riuscite verte tutto però sul forte binomio o cortocircuito col luogo. Creando pezzo dopo pezzo un percorso che renda questa scoperta un’esperienza immersiva a tutti gli effetti: immersiva con il paesaggio e con le opere che lo ridisegnano e lo risignificano.


E' dunque possibile intravedere un futuro diverso anche per l’arte, che non passa solo per l’evoluzione tecnologica ma, anzi, torna alle sue origini? L'abbiamo chiesto a Carlo e siamo andati alla scoperta della Maremma fotografando le opere nel loro ambiente d'origine.


Portare il programma di una galleria fuori delle mura di uno spazio statico per provare a creare nuovi spunti di riflessione è qualcosa di oltremodo complesso ma che più che mai parla dell'epoca in cui viviamo. Ci racconti questa esperienza?


Senza dubbio portare un'opera a dialogare con un ambiente esterno, con un paesaggio che ha specifiche connotazioni, (il più delle volte di incredibile impatto visivo) è una sfida complessa per l’artista che presuppone soprattutto una sua profonda responsabilità. L’opera non può più essere autoreferenziale, collocabile di volta in volta da una galleria all’altra senza mutare significato. L’opera non può non essere concepita che strettamente legata al luogo che la accoglie. L’opera deve quindi significare il luogo trasfigurandolo in qualche modo, ma questo la rende parte del luogo stesso e non più appunto un singolo oggetto autoreferenziale.


Allo stesso tempo però un’operazione del genere responsabilizza profondamente anche noi di Hypermaremma: inserire un’opera in un paesaggio ha una valenza ben diversa che appendere un quadro in galleria. Si entra nella sfera dell’arte pubblica, quello che facciamo modifica il campo visivo di chi non per forza sia interessato all’arte contemporanea come chi entra consapevolmente in una galleria d’arte. Chi si imbatte, molto spesso per caso, nelle nostre opere non è da subito predisposto ad una loro specifica fruizione.


La magia delle opere più riuscite verte tutto sul binomio o corto circuito col luogo. Dalle opere stesse, dalla cura e dalla loro posizione si riesce pienamente a percepire l’affezione personale che vi è dietro i luoghi maremmani. Come decidete il posizionamento delle installazioni?


La forza del nostro progetto è assolutamente la forza del territorio in cui lavoriamo. Hypermaremma vuole raccontare questo territorio, la sua identità e i suoi paesaggi attraverso la visione di un artista. Questa visione spesso li trasfigura e li stravolge, o può semplicemente si accosta a loro in maniera meno invasiva ma sempre sottolineandone la profonda eccezionalità.


Il successo di un’opera di Hypermaremma è allo stesso tempo il successo del paesaggio che la circonda e la capacità dell’opera stessa di dialogarci in maniera efficace.



Quali sono i criteri di scelta dei vostri artisti?


Molto spesso è proprio il luogo da cui si parte. In base alle sue caratteristiche arriviamo all’artista adatto per poterlo meglio reimmaginare. Ogni anno siamo sempre attenti a bilanciare nomi di artisti storici e affermati italiani, Giuseppe Gallo, Maurizio Nannucci, Mario Airó solo per citarne alcuni, a figure internazionali come ad esempio è stato per Claudia Comte, Charlemagne Palestine o Virginia Overtoon. Accanto a loro però presentiamo sempre giovani artisti, musicisti e performers per non abbandonare mai la ricerca sulla scena più contemporanea. Hanno presentato dei lavori incredibili durante il corso degli anni Gianni Politi, Marco Emmanuele, Gaia de Megni, Parasite 2.0 solo per citarne alcuni.



Sembra evidente una correlazione tra le diverse opere presentate dai differenti artisti, quasi tutte presentano forte matericità, spesso sembrano essere vere e proprie estensioni della natura circostante. E’ dunque l’opera a prendere ispirazione da ciò che la circonda o è il sito in cui viene esposta ad essere selezionato in base all’opera?


Raramente partiamo dall’opera. Quello che è accaduto finora nella maggior parte dei casi è stato innamorarsi di un luogo, sentire il bisogno di raccontarlo nuovamente attraverso la visione di un artista, e quindi mettersi alla ricerca della figura adatta.


A quel punto l’artista viene individuato proprio per la sua capacità di relazionarsi a quel luogo preciso, agli elementi storici e naturalistici che lo contrassegnano. Il lavoro viene quindi prodotto da noi, concepito specificatamente per il territorio, non esiste a priori.



Estremamente affascinante è il contrasto che si viene a creare tra il nome dell’opera e la scelta del materiale. Riciclo di materie prime piene di storia, di ricordi, dedite a tutt’altro utilizzo; potremmo senza dubbio definire l’opera un vero e proprio artefatto ready made. Ci piacerebbe approfondire il significato della scelta dei materiali utilizzati (perfettamente in linea con il paesaggio che li circonda).



Lavorare con il territorio, andare nella direzione della vera e propria Land Art mette sicuramente al centro l’uso dei materiali nella realizzazione dell’opera.


Penso subito alla gigantesca scritta “In Nature Nothing Exist Alone” di Claudia Comte, realizzata in tronchi di pino provenienti dal Monte Amiata, oppure alle sagome di Giuseppe Gallo che si stagliano davanti al mare di Ansedonia: acciaio Corten che sembra essere parte integrante della natura, che appare quasi una estensione organica della macchia mediterranea. Al contrario ogni tanto l’artista punta al cortocircuito col paesaggio: penso al Fontanile di Giuseppe Ducrot, a come quel giallo faccia apparire l’opera una vera e propria astronave di ceramica atterrata nel verde di Terre di Sacra. Ma non per questo incapace di inserirsi perfettamente nel paesaggio.



Attivare un luogo con l’intervento di un artista significa attribuire a quel luogo ulteriore poesia e nuovi significati. Sei d’accordo? Se sì, quale è stato il momento più significativo in questo senso, vissuto con il percorso curatoriale di Hypermaremma?


Il nostro lavoro è esattamente questo. Raccontare dei luoghi speciali attraverso la visione dell’arte contemporanea. Questa ha il ruolo fondamentale di dare a noi e al luogo stesso nuovi significati, sottolinearne le connotazioni storiche o paesaggistiche, innescare una riflessione. Generare nuove e diverse emozioni davanti a quello che un momento prima era un luogo in grado di farlo solo in diversa maniera.


Di momenti importanti durante questa avventura ce ne sono stati tanti. È innegabile che l’opera Spazio Amato, presentata follemente a metà 2020 quando il mondo era praticamente paralizzato, come unica e sola opera di quell’edizione di Hypermaremma, mi ha segnato moltissimo. Una piccola didascalia di luce (di 16 metri) che è diventata da subito un’icona del territorio e soprattutto l’opera d’arte più visitata in Italia quell’estate.


Mi è rimasto nel cuore anche il lavoro di Moira Ricci. Incredibile artista tra l’altro nata e cresciuta in Maremma, che con due opere strepitose, la Trebbia Astronave e il Pugno di Goldrake è riuscita a raccontare la fine del mondo contadino e la necessità di proteggere la comunità di agricoltori locali.


Soprattutto il pugno di Goldrake è diventato nel 2021 un vero simbolo di culto, con visitatori che sono letteralmente partiti da ogni parte d’Italia per visitarla.



Come pensi che l'integrazione della musica possa arricchire ulteriormente l'esperienza artistica e influenzare la percezione del territorio circostante?


Fin dal primo anno Hypermaremma ha sempre voluto approfondire la scena musicale e performativa più d’avanguardia presentando dei live in luoghi d’eccezione. Mi viene in mente il live di Emiliano Maggi circondato dalle rovine del tempio di Giove ad Ansedonia proprio nel 2019, la performance dei Saló sulla minuscola isola sperduta della Formica o il live letteralmente subacqueo di Michela de Mattei e Simone Bertuzzi dentro l’acqua sulfurea delle Terme di Vulci.


In tutte queste occasioni ci siamo resi conto che il potere evocativo della musica è stato efficace e dirompente al pari di una grande opera. E allo stesso modo è stato in grado di risignificare un luogo e la sua percezione.



L’interazione di musica e arte è qualcosa che ricerchiamo sempre di più in un mondo sempre più volto al crossover. Ci racconti dell’idea dietro al concerto dei Salò sull'isola delle formiche e di quello più recente di Charlemagne Palestine?


Stiamo andando in una direzione in cui arti visive, performance e musica si mescolano su uno stesso piano in maniera sempre più fluida e meno nettamente distinguibile. Viene spontaneo per noi invitare artisti che hanno anche progetti musicali o producers che attraversano con il loro lavoro anche le arti visive.


Con i Saló nel 2021 avevamo programmato un concerto speciale, sotto le stelle di Agosto davanti al mare tutti distesi sul loro gigante telo rosso che accompagna la band da ormai qualche anno. Una vera e propria sonorizzazione della volta celeste, ipnotica e sognante. Durante i sopralluoghi in spiaggia adocchiarono questo scoglio sperduto all’orizzonte. Da lí fú un attimo mettere in scena una performance assurda, dedicata solo alle lucertole di cui l’isolotto era pieno, una danza al crepuscolo con degli incredibili costumi realizzati da Emiliano Maggi in tessuto riflettente dorato, un tentativo di mettersi addosso gli ultimi raggi del sole rosso che di taglio segnano il tramonto.


Charlemagne Palestine invece è stato un sogno che si è avverato meno istantaneamente. Tutto è partito da una chiacchierata un paio di anni fà con Ruggero Pietromarchi, direttore del Terraforma (uno dei miei festival preferiti).


Piano piano l’idea si è sedimentata e quest’anno si sono verificate le condizioni perfette per realizzarlo. L’incredibile cornice della piccola pineta della Ferriera di Pescia Fiorentina è stata incredibile, con le cicale che si sovrapponevano alle note sognanti di pianoforte di uno dei pionieri della musica minimale.




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