FASHION SUSTAINABILITY: not just theory
La sostenibilità come stile di vita, non solo teoria

Cosa significa per un brand essere sostenibile? Utilizzare materiali riciclati? Ridurre lo spreco di risorse naturali e l’utilizzo di metodi innovativi per la produzione? Disincentivare all’acquisto smodato e d’impulso? Rallentare i ritmi di produzione? Proporre iniziative socialmente utili?
Diciamo che possiamo definire la sostenibilità come la “ricerca che incontra la necessità del presente senza compromettere la possibilità delle future generazioni di incontrare i loro bisogni”.
Siamo tutti coscienti del fatto che abbiamo bisogno di agire per ridurre il nostro impatto sull’ambiente e molti, quasi tutti i marchi di moda, hanno iniziato ad introdurre pratiche sostenibili all’interno delle loro produzioni, ma non è abbastanza.
La moda è la prima a muoversi, ma anche una delle principali fonti di inquinamento.
Innanzitutto, partiamo da qualche numero sui consumi medi nel settore dell’abbigliamento: ogni anno vengono consumati e smaltiti oltre 1.1 milioni di tonnellate di vestiti, il 31% finisce in discarica, il 43% viene riutilizzato, il 14% riciclato e il 7% viene incenerito. Si stima che entro il 2030 il consumo di capi d’abbigliamento aumenterà del 65%, il che comporterebbe un raddoppiamento di utilizzo di acqua e agenti chimici e oltre il doppio di rifiuti ed emissioni. Per fare un paio di esempi concreti, per una sola t-shirt di cotone vengono impiegati 2700 litri d’acqua circa e 10 kg di Co2; per un jeans vengono impiegati 3800 litri d’acqua, 33kg di Co2, 12 m2 di terreno e 18,3 Kwah di energia elettrica.

La scelta di un negozio vintage, lo scambio tra amici, la vendita e l’acquisto di abiti usati, riciclati, l’affitto di abiti per le occasioni, il lavaggio dei capi solo quando necessario e a basse temperature, sono tutti piccoli gesti, mirati e concreti che, se introdotti nella routine di ognuno, posso davvero fare la differenza.
Ad esempio, Alec Leach sostiene che si dovrebbe raggiungere la stessa cura ed attenzione che oggi c’è verso la qualità e la provenienza del cibo e dei prodotti cosmetici.
Certo, non si può dire che non si stia facendo proprio nulla, non riconoscere che tanti brand sono sulla strada giusta e molte iniziative siano degne di menzione: nell’high fashion il portale “Gucci Equilibrium” spiega e aggiorna sulle sue pratiche sociali e ambientali; Stella McCartney da anni lotta per l’ambiente utilizzando tessuti rigenerati e riciclati e investendo in una piattaforma per condividere ricerche per i nuovi designer emergenti; Prada utilizza nylon riciclato ricavato da vecchie reti da pesca; Burberry ha abbandonato l’utilizzo di pellicce e interrotto la catena di distruzione dell’invenduto, oltre che a puntare ad emissioni zero come nel caso della sfilata ss20; Emporio Armani ha presentato la collezione fw21 fatta interamente di tessuti riciclati e così via. Ma questo è solo l’inizio di un percorso, dobbiamo pretendere di più e stare attenti a ciò che succede senza farci ingannare dal greenwashing di molti, ma soprattutto agire individualmente.
Le riflessioni e le azioni conseguenti all’attuale pandemia stanno certamente aiutando. Si spera anche nel lungo termine, nella riduzione delle collezioni alle sfilate, ora per la maggior parte digitali. Una serie di webinars, interviste e chiacchierate tra le più note ed influenti personalità del settore, hanno dimostrato come ci sia buona volontà e predisposizione al cambiamento e al miglioramento delle condizioni attuali, rafforzando i valori dei brand affermati e supportando quanto più possibile i marchi emergenti, che stanno lavorando al meglio per il minor impatto possibile sull’ambiente.
La sostenibilità deve diventare uno stile di vita, non solo teoria.