A DAY WITH ARTIZHAN
Updated: Nov 13, 2022
Artizhan è solo uno degli pseudonimi scelti da Francesco Cozzolino aka Franky B per descrivere le
multiformi sfaccettature che compongono il suo poliedrico ritratto d’artista. Turntablist, Dj e producer
napoletano, originario di Ercolano e trapiantato a Milano, ha iniziato da ragazzino il suo rapporto d’amore
con la musica che ha accompagnato tutta la sua evoluzione artistica.
Nel 2000 e nel 2001 è vincitore del DMC in Italia e finalista nelle edizioni internazionali con i Men In Scratch.
Guida il collettivo Nevrotype, che con Visionetics, album di debutto che guadagna il titolo di miglior disco
elettronico italiano del 2001 secondo MTV, irrompe nella scena breakbeat e D’n’B italiana.
Da qui si dedica ad altri progetti non esclusivamente legati alla produzione discografica. Entra a far parte
della Abstract Groove, agenzia creativa di Milano, e produce colonne sonore per brand globali come
Cadillac, Diesel, Audi e Yamaha - Rise of the Kaju, track firmata Franky B aka Cryptic Monkey, finisce nella campagna mondiale della moto Yamaha MT-09.
Come Cryptic Monkey produce due album solisti, S.E.B.A. (Sound Explicit Bassline Anthems) nel 2013,
anno in cui gli viene assegnato il titolo di miglior dj producer italiano al Mei e con il video di Vesuvius Bunks
con il featuring di James Senese, vince il premio PIVI come miglior videoclip indipendente nel 2012. Segue
l’album “Against” nel 2015.
Tra il 2010 e il 2013 è regista alla consolle di Rai Tunes, programma radiofonico condotto da Alessio
Bertallot in onda su Radio2. Dal 2018 è direttore artistico dell’Akademia di Pozzuoli.
Come Artizhan, per Apparel Tronic, etichetta milanese attiva sulla scena elettronica/jazz e house
contemporanea, pubblica nel 2019 Nasty Drifts from Sequoia e Birthday, incluso nella raccolta
VariousTronic 01. L’anno precedente escono ErcolaNeo Funk per Moan Recordings e l' Adamantino per
la Plastik Galaxy Rebels. Il 7 gennaio 2022 con Apparel Tronic esce Breaks from The V. l'album di
debutto del progetto artistico Artizhan. Cura uno spazio mensile radiofonico per Apparel Show in diretta
dalla Triennale di Milano su Radio Raheem.
Esplorando le sue diverse produzioni si sente una fusione armonica tra il gusto e le influenze della città di
origine, Napoli, e la sua apertura a generi dell’elettronica come la jungle, l’hip hop, il reggae, tendenti alle
sonorità UK più underground, quelle dettate dalla breakbeat.
PH. GAIA MEROLLA

G: Ciao Franky, siamo qui per t-mag.
F: Grazie, ne sono onorato.
G: Siamo qui con Artizhan, che è il tuo pseudonimo per il disco Breaks from the V, ed è solo uno degli
pseudonimi di Francesco Cozzolino.
F: Diciamo che è quello finale.
G: Tu sei un turntablist, dj e producer napoletano, originario di Ercolano ma trapiantato a Milano. Hai iniziato giovanissimo il tuo rapporto con la musica. Infatti già nel 2000 sei stato vincitore del DMC in Italia e finalista con i Men in Scratch. Hai guidato il collettivo Nevrotype, con cui hai prodotto il primo disco drum’n bass italiano e che è stato eletto come miglior disco da MTV nel 2001. Poi, a Milano, sei entrato a far parte della Abstract Groove, con la quale hai prodotto colonne sonore per brand importanti come Yamaha, Diesel. Il tuo brano Rise of the Kaiju è finito come soundtrack nella campagna mondiale della moto Yamaha.
F: E’ diventato ufficialmente il loro. Questa cosa è successa in maniera ufficiale ormai tre anni fa, dopo un
utilizzo di diversi anni da quando è stato prodotto, cioè ogni stagione nuova veniva scelto. Il presidente di
Yamaha in Giappone ha deciso di farla diventare ufficialmente il loro sound logo, che è una cosa
meravigliosa perché loro sono impazziti. Ogni anno arrivava la richiesta di un remix della stessa cosa e noi
pensavamo “Ma questi veramente fanno?!”…. La cosa bella è che quel pezzo è diventato il motivo, e questa
è una delle soddisfazioni più grandi che ho avuto, per far vendere delle moto. Mi hanno scritto delle
persone dal mondo che avevano comprato la moto a causa della sountrack! E questa è una cosa bellissima.
G: Ricorre infatti spesso questo tuo legame con il Giappone. Poi sei stato anche Cryptic Monkey e con questo progetto c’è stata anche la collaborazione di James Senese, nel disco e nel video di Vesuvius Bunks. Tra il 2010 e il 2013 sei stato alla consolle di Rai Tunes (che io ascoltavo tutte le sere) con Alessio Bertallot. E poi con la Apparel Tronic hai pubblicato diverse cose come Artizhan.
F: La Apparel è una realtà meravigliosa che fa capo a Giuseppe D’Alessandro, in arte Kisk. E’ un musicista,
manager e produttore fantastico e Ludovico Shilling (aka Shilling) che è un musicista anche lui. Sono due
persone eccezionali, innanzitutto da un punto di vista filosofico. Questo è il motivo per cui sono voluto
entrare nel loro roster. E poi perché nel nostro variegatissimo mondo di musica, al di là dei loro gusti che
sono molto inclini ai miei, anche se diversi, la Apparel ha un’inclusività enorme. Anche dal punto di vista
empatico e umano ho sentito una sorta di filo energetico che mi legava a loro, e viste le mie tante
esperienze nel mondo della discografia, per me questa cosa è più importante di qualsiasi tipo di contratto e
di deal discografico. Con loro si è stabilito un rapporto veramente umano, e li ringrazio per la fiducia e
l’investimento per creare “Breaks from the V”, che, come progetto, non è ancora finito.

G: Infatti siamo curiosi. Abbiamo trascorso due anni di pandemia e durante il primo lockdown ci hai allietati con le tue playlist giornaliere #iosuonodacasa….
F. Perché non sapevo cos’altro fare quindi…. (risate), questa diventava come una medicina personale che
poi ho cercato di condividere con gli altri.
G: E nel frattempo hai prodotto questo bellissimo album, che è un chiaro omaggio a Napoli, perché suppongo che V stia per Vesuvio.
F: E’ sicuramente Vesuvio, ma V può essere anche altre parole che iniziano per V come Visioni, come Virus
nel senso più ampio. Il primo significato è sicuramente quello del Sacro Monte, che ti sta sempre davanti,
essendo io di Ercolano, che è proprio sul Vesuvio, noi siamo proprio sulle pendici. Se tu esci fuori ad un
terrazzo, per esempio a casa dei miei genitori, ti trovi questo monte gigante che ti guarda, e crescere con
questa cosa è bellissimo ma allo stesso tempo inquietante. E questo è anche quello che io volevo intendere
in Vesuvius Bunks. Bunks sono le cuccette e il Vesuvio è come se fosse una cosa con cui tu dormi, che sta
sempre vicino a te ed è anche inquietante perché ti riporta a quello che storicamente è successo qui, dove
ci sono gli scavi di Pompei ma anche di Ercolano. Una tragedia ma allo stesso tempo la vedo come una cosa
che ti protegge. Tornando a Breaks from the V, i “breaks” sono quelli che ti porta il Vesuvio.

G. Partendo da Napoli, con una forte appartenenza a Napoli, hai avuto una significativa esperienza londinese. Vivi a Milano ormai da tanti anni.
F: E non ho ancora capito perché dopo quasi vent’anni.
G: Ecco, se tu dovessi scattare una fotografia di te stesso in questo momento, dove ti vedresti?
F: Ho pensato molto a questa cosa. Purtroppo io mi vedo esattamente a metà, nel senso che , forse non
significa niente, ma lo sto provando proprio sulla mia pelle. Vivo questa condizione duale. Per anni e anni
ho sperato e pensato che dovevo tornare a casa, l’ho pensato ovunque fossi nel mondo. Sono stato in un
sacco di posti, ho trascorso un mese in Africa a fare una ricerca musicale e pensavo sempre a questo
collegamento con casa. Milano mi ha dato tantissimo, amicizie, umanità, contro qualsiasi luogo comune
stupido che esiste su questa città, sai quelle stupidaggini tra nord e sud. Hanno un certo tipo di verità in
alcuni contesti, ma nei contesti culturali queste cose non esistono. Quindi Milano mi ha dato un sacco di
amore, mi ha permesso anche di essere un po'; più uomo, perché io a Milano ho potuto ragionare sulla mia
professione anche in termini economici più importanti. A Milano ho potuto comprare una casa, quindi sono
molto legato a questa città, dalla quale però scappo, per un certo habitus che le persone che stanno qua
ottengono. Cioè io non mi sento facente parte di questa città da un punto di vista sociale, cioè non
frequento, non vado nei posti; allo stesso tempo penso a Napoli. Però quando poi sto a Napoli mi rendo
conto che forse è passato troppo tempo da quando sono andato via. E quindi ci sono delle cose che, per
quanto riconosco come assolutamente familiari, mi hanno anche un po' stufato in generale. E quindi
praticamente io mi trovo esattamente nel mezzo: quando sto in una città mi manca l’altra.

G: Io la chiamo “la sindrome dell’altrove”, questa cosa si sente anche nel disco.
F: Probabilmente è così. Certo è ovvio che Napoli è Napoli. C’è uno scrittore importante che dice che cos’è
la napoletanità. Non è un modo di atteggiarsi, di parlare, di dire le cose. La napoletanità è veramente uno
stato dell’anima che puoi riconoscere in qualunque parte del mondo, puoi trovare Napoli in un sacco di
posti.
G: De Crescenzo!
F: Molto probabile, è una figura eccezionale. Io l’ho conosciuto quando ero molto piccolo, avevo un suo
libro che mi ha autografato. La napoletanità è una cosa che tu puoi trovare ovunque, nella musica, nella
pittura, nella scrittura. Ci sono posti sperduti nel mondo che sono pieni di una napoletanità autentica. Io
combatto con tutte le mie forze, da quando ero piccolissimo, e ci sono i miei compagni di scuola, i miei
amici con i quali sono cresciuto che possono testimoniarlo, combatto la napoletanità ignorante, cioè quello
che adesso per i media della musica è HYPE. Combatto i neomelodici, tutta quella roba che da un’immagine
arruffona, ignorante, lazzara che con me non c’entra un caxxo. E quella cosa là, ti posso dire da
napoletano, esiste da sempre ed è quello da cui io scappo e che mi fa allontanare dalla mia città. Però
Napoli rimane sempre il punto focale di tutto, come partenza dell’energia.

G: Infatti partiamo da qui. Facciamo un lungo flashback alle origini. Com’è partito tutto, come te lo ricordi il Franky B degli esordi?
F: Io ho avuto la fortuna di avere questa “chiamata alle armi” verso la fine degli anni 80/ inizio anni 90,
quindi quando anche in Italia arrivava tutto. E per tutto ti parlo di musica vera, la house music, entrava un
certo tipo di hip hop. In quegli anni, probabilmente nell’88, arrivarono dei dischi rap fondamentali, dei Run
DMC, Public Enemy, LL Cool J, i Beastie Boys. Quindi tutti i ragazzini della mia generazione, che andavano a
comprare musica e che si approcciavano a una musica diversa, avevano a che fare con queste cose. In più
Napoli, questa è una cosa molto importante e sono stato molto fortunato, è sempre stata una capitale
della musica, sono sempre successe cose d’avanguardia.
All’epoca nacque la Flying Records. Nasceva come negozio di dischi alternativo poi divenne un’etichetta internazionale. I De la soul con “3 Feet high and rising” sono stati licenziati per la prima volta da Flying Records per l’Europa, quindi il disco è arrivato in Europa grazie a un napoletano che si chiama Flavio Rossi, che era il proprietario di Flying Records. Da lì sono nate poi UMM e un certo tipo di musica. Sono arrivate le licenze delle cose techno. Quindi grazie a FlyingRecords a Napoli e in Italia (perché partiva da Napoli) è incominciata ad arrivare tutta questa musica pazzesca che nasceva in Europa. All’epoca esisteva il movimento rave inglese, tutto quello che succedeva nel post Thatcher, esisteva il Belgio, che era il posto più figo del mondo, non era Berlino il posto più figo del mondo.
C’era la belga R&S Records, si affacciava la Warp Records. Esistevano delle cose interessanti in
Francia. Tutte queste cose arrivavano in Italia grazie a questi di Flying Records. Quindi io che all’epoca
potevo avere 11/12 anni, mi sono trovato nell’esplosione della nascita di queste cose. Frequentavo quel
negozio di dischi, mi ci accompagnava mio padre perché non mi ci lasciava andare da solo. Venni preso
praticamente a cuore da questi dj che lavoravano lì dentro, che videro in quel ragazzino uno che voleva
imparare. Ti sto parlando di anni in cui la parola Dj non significava niente! Qualunque cosa che per noi oggi
è scontata, dalla composizione di una consolle, cioè due giradischi e un mixer, all’epoca erano tutte cose
che nascevano. Io mi sono trovato, non solo musicalmente ma anche da un punto di vista sociale, in mezzo
a questa rivoluzione che arrivava.

Ti sto parlando però di rivoluzioni silenziose, perché a differenza di oggi,
dove tutto ha molta risonanza per mezzo dei social, all’epoca erano sottoculture. Anche il movimento
legato a un certo tipo di edonismo, quello che accadeva per esempio a Ibiza, era visto in maniera edonistica
ma per pochi, cioè per chi era un vero clubber. Anche l’inclusività che c’era nella dimensione del clubbing,
vedi i super club di Rimini, Riccione, che facevano la storia, raccoglievano già certi movimenti che adesso
vengono definiti lgbt, già allora erano fantastici, ma erano tutte cose nuovissime. Era una rivoluzione di
sottoculture, a differenza di oggi dove il nostro mondo è diventato una sovra-cultura e chi fa il dj e si
occupa di dance fa la cosa più commerciale che esiste. Quando andavo a scuola tutti avevano una band,
suonavano nelle band, io volevo fare il dj e sembrava una cosa che dovevi spiegare a tutti cosa significasse.
All’epoca tante persone della mia età, che poi sono diventate più o meno note, incominciavano ad avere lo
stesso tipo di pulsione. Noi siamo cresciuti tutti insieme e si è creato questo cono di voglia di imparare, non
tanto di emergere, quanto proprio di imparare. Ti rendevi conto che eri praticamente in una sorta di ciclone
che girava e succedevano cose. Quando è uscito Deee- Lite “Groove is in the heart”, io ho comprato la
copia originale ma ero un bambino. Quando usciva un disco era una festa, sentivi l’impatto del fatto che
stavi comprando IL DISCO. Quando è uscito Pump Up The Jam dei Technotronic, era come se fosse Thriller
di Michael Jackson, per la musica house ha la stessa importanza, ti rendevi conto che stavi scoprendo la
luna.

G: La scintilla c’è stata da Flying Records. In quel contesto sarai entrato in contatto con persone che ti hanno influenzato, istruito. Chi sono i personaggi con i quali hai interagito e che poi, magari, sono diventati anche collaborazioni?
F: Siccome ero molto piccolo, avevo delle difficoltà, Napoli non è un posto semplice dove muoversi da solo
e stare tranquillo. La mia famiglia ebbe paura quando cominciai a fare questa cosa in maniera seria, ho
avuto il primo ingaggio da dj quando facevo la scuola media. Quindi quando andavo a suonare i miei
genitori mi accompagnavano e mi venivano a prendere, anche perché avevano paura a farmi scendere di
casa da solo, non era così sicuro. Quindi io all’inizio avevo poche possibilità di vedere altre persone come
me. La cosa bellissima che ti voglio raccontare, è come se , in maniera naturale, in un’epoca pre-internet,
pre- cellulari, la nostra energia ( e adesso tu ti metterai a ridere) mandasse dei segnali. Cioè io sapevo che ci
stava un altro alieno da qualche parte che ragionava come me. Quindi si creavano le condizioni per
incontrarsi. Il negozio di dischi sicuramente era una condizione. Ti vedevi là, era come un’agorà, una piazza
dove tu sentivi le leggende, le storie. Perché nel negozio a un certo punto entrava quello pesantissimo, e tu
eri piccolo, e tu sapevi la storia di questo. Poi arrivava quell’altro e si creavano tutte queste connections che
portavano poi a conoscersi. La prima persona che ho visto e sicuramente mi ha ispirato è stato Simone
Cavagnuolo, Dj Simi de La Famiglia, è uno dei produttori, oltre che dj storico, esce su Yoshitoshi e su
diverse etichette. Dj Simi per esempio abitava a San Giorgio a Cremano, paese di Massimo Troisi, molto
attaccato a Ercolano. Eravamo così vicini ma allo stesso tempo così lontani. E noi ci siamo conosciuti per la
prima volta quando ero un bambino alla prima gara di DMC. Ti posso fare tantissimi nomi. Una cosa molto
divertente, ricordo la prima volta che riuscii ad andare da solo a comprarmi i dischi, ero sempre piccolo ma
avevo quella libertà maggiore per prendere la vesuviana, che è una metropolitana all’aperto. Ero piccolo
per cui guardavo tutto da alieno e ricordo di questo manifesto gigante che era per la prima festa degli
Angels of Love, gruppo storico del quale ho anche fatto parte, dove la guest era Claudio Coccoluto. Ed io
vidi per la prima volta scritto gigantesco il nome di questo qua, la festa si chiamava Humanity, si possono
ancora trovare i flyer su internet. Io pensavo “Chi è questo?”, quindi nella vita iniziavano ad arrivare nomi
che poi sono diventati come persone di famiglia.

Poi a Napoli anche Polo, sempre de La Famiglia, è stato uno dei primi writer. Guardavo i treni e vedevo le
sue prime tag, poi Speaker Cenzou, quindi tutto quello che è stato la nascita del movimento hip hop
sviluppatosi a Piazza del Gesù. Il famoso “movimento del bidone” perché in mezzo alla piazza ci stava un
bidone e noi ci ritrovavamo là. Persone che non si conoscevano sapevano che esisteva questa cosa che si
chiamava rap, però il rap non era quello di Jovanotti o degli Articolo 31, che era ciò che l’Italia vedeva, noi
stavamo ad un livello avanzatissimo. Subito iniziammo a capire la differenza tra New York e Los Angeles
come tipo di suono. Come tutti anche io ho avuto il mio gruppo rap, io facevo gli scratch, si chiamava La
contrada degli spiriti distratti. C’era MC Knut che adesso è un curatore d’arte, c’era Gianluca Vitiello, che è
uno speaker molto famoso di Radio Deejay. Ed eravamo tre ragazzini che si mettevano insieme e
incominciavano a fare rap. Noi facevamo rap sulle strumentali degli artisti americani, cosa che poi facevano
pure gli americani, non è che noi eravamo quelli poverelli eh…
Poi nel corso del tempo ho conosciuto persone che hanno avuto un ruolo importante, una tra tutte
Giovanni Roma, con cui ho fondato Nevrotype e Angelo Ambrosio, Ambrò; Dj Fiore che è stato ed è tuttora
una delle persone che frequento di più; Marcello Coleman, Fabio Di Bartolomeo, che è stato un maestro
eccezionale nello studio. Peppe Cozzolino, che è ancora il mio socio storico, ed è uno dei tastieristi
napoletani più importanti. E poi ho conosciuto quelli che oggi, e mi fa ridere, sono delle superstar hip hop,
per dirti Luchè dei Co’Sang, Luchè e Ntò li ho visti crescere. Io con Luchè mi sono diplomato alla scuola di
tecnico del suono e con Luchè vivevamo nella stessa casa a Londra.
G: Facciamo una pausa altrove, in Giappone, per il quale hai una predilezione in quanto amante dei fumetti.
F: Si dice essere un “Otaku”.
G: Com’è nata questa curiosità verso le grafiche giapponesi dei fumetti, le storie e i supereroi?
F: Nella maniera più semplice possibile: ho sempre letto partendo da Topolino, al Corriere dei Piccoli. Poi
sono passato a Dylan Dog, che collezionavo in maniera compulsiva, infatti ho anche dei numeri che valgono
tantissimo. Poi uno dei miei compagni di classe mi fece vedere un manga. Però, attenzione, io ero già un
super otaku, cioè una persona ingrippatissima di anime. Da quando ero piccolo mi sono visto tutti i cartoni
animati del mondo, quelli per le ragazze e quelli per i ragazzi. In Giappone c’è questa differenza di genere,
gli shonen sono quelli maschili mentre gli shojo sono quelli femminili. Esistono anche dei sottogeneri, i
seinen ad esempio, che sono quelli per gli adulti. Poi oggi si può dire questa cosa perché fa cool, ma
quando ero ragazzino io ti dovevi mettere quasi vergogna. C’era ancora quel luogo comune del “Ancora ti
vedi i cartoni animati?”…. certo che si, io ho sempre visto i cartoni animati.
Poi uscì Hokuto no Ken, Kenshiro, che fu una rivoluzione completa. Quando ho visto la prima puntata di
Kenshiro non ho dormito la notte perché era violentissimo. Ed io alcune scene, non di quel tipo, ma simili,
le vedevo a Napoli in mezzo alla strada, quindi in me si creava una certa identificazione. Le vedevo in alcune
cose bullizzanti. Quindi quando arrivò Kenshiro mi scioccai. Erano le prime cose che arrivavano in Italia,
anche dal punto di vista dell’edizione, per non avere problemi, stampavano all’italiana, cioè con la lettura
che abbiamo noi mentre i manga si leggono al contrario. Da lì, un po'; per emulazione di questo mio
carissimo amico, ho cominciato a comprarli ed è stato amore infinito, infatti ho una collezione
imbarazzante. Questa cosa l’ho dovuta fermare a un certo punto della mia vita perché era come con i
dischi, mi affondava a livello economico perché ero un maniaco collezionista e non mi sapevo trattenere.

G: E qual è il collegamento con la musica?
F: La stessa passione per la cultura Giapponese, una cosa quasi autistica, io l’ho vissuta anche con la
musica. Avere una determinazione fuori al comune, quella determinazione che vedevo nei protagonisti
delle storie che leggevo, io l’ho applicata nella mia formazione come dj, nel mio allenamento. Io ero il
protagonista del mio manga. Infatti mi chiamavano Goku, perché ho avuto i capelli sempre strani. Dovevo
essere sempre più forte, il mio romanzo di formazione era un manga. E come nei manga, incontravo il
personaggio che ti “struppiava” e che quindi ti permetteva di diventare più forte. Ho fatto le gare di scrtach
per acchiappare persone forti, perché è quando perdi che diventi più forte. Se hai un briciolo di verità
dentro di te, quando perdi, la sconfitta diventa un propulsore per il tuo nuovo livello. C’è anche chi perde e
si arrende.
G: Per curiosità eroe o titolo preferito?
F: Potrei dirtene tanti… sarò banale Goku naturalmente. E Guts di Berserk, è uno dei personaggi che ho
amato di più. Purtroppo due anni fa è morto Kentaro Miura, l’autore, e Berserk non finirà mai, non
vedremo mai la fine. Questa cosa per me è un incubo, io ho comprato il primo numero a 14 anni e la storia
continuava fino a due anni fa. Quindi non saprò mai come va a finire.

G: Passiamo ad un’altra città, Londra. Ci sei stato dopo il successo di Nevrotype. Parlaci della tua esperienza lì, non solo musicale ma proprio di vita, in quegli anni pieni di rivoluzioni.
F: Il passo è stato molto simile a quello milanese. Erano anni in cui ero già diventato un professionista, vuol
dire che suonare era ciò che ti dava da mangiare, era il tuo lavoro. Napoli non poteva più bastarti, ma
nemmeno Roma dove andavo, quando non ero ancora un professionista, a comprare i dischi da Remix, che
era uno dei miei negozi preferiti perché seguivo la techno. Quindi andare a Milano e a Londra erano quasi
tappe obbligate. Fortunatamente cominciai ad andare a Londra quando alla fine degli anni 90 scoppiò la
drum’n’bass, la jungle con Roni Size, con Goldie e sentivi parlare di Soho. Parlavano di un negozio che si
chiamava Black Market che era gestito da un tipo, Nicky Blackmarket, che era un dj. E io dovevo vedere.
Riuscii ad andare e a fare la cosa più bella della mia vita: i mondiali di scratch nell’anno 2000 al Millennium
Dome, prima che fosse buttato giù. In quell’edizione partecipavano tutti i più forti, io mi sono scontrato
con A-Track, Scratch Perverts, Craze. Era come nei manga, quando Goku fa il torneo Tenkaichi. Quindi feci i
mondiali e andai a vivere là. Decisi di portare Nevrotype.
Io non sapevo niente. Sapevo che c’era una zona che si chiamava Hackney dove c’erano distribuzioni di
jungle e breakbeat, che stava iniziando a uscire. Poi frequentavo la zona di Camden Town dove c’era la
sede della Finger Lickin’ Records, che era l’etichetta di Plump Djs e di Lee Coombs. Che poi alla fine era un
bar che aveva un posto sopra dove facevano club house. Ma lì dentro ci stavano i mostri.
(Qui con i miei soci di Nevrotype non ci capimmo e ci dividemmo. Questa è una cosa molto personale cha
non ho mai raccontato nelle interviste. Nevrotype quest’anno fa vent’anni, e dopo tour incredibili e
successi, quando tu senti parlare che esitono ancora gli Almamegretta, i 99 Posse i 24 Grana, e pensi che
all’epoca noi eravamo headliner con loro… La cosa è finita perché eravamo tre, io, Ambrò e Wobi, eravamo
piccoli e non avevamo preso coscienza di quello che dovevamo fare. Vedo la differenza con i ragazzi di oggi
che fanno rap, sono più sgamati e nonostante la loro giovane età sono professionisti. Noi non ce l’avevamo
questa cazzimma. Per noi era tutto nuovo, eravamo su MTV, siamo usciti su Cioè e quando firmammo
come Nevrotype, a differenza di adesso, abbiamo preso un sacco di soldini in advance dall’etichetta.
All’epoca però non sapevamo che cosa sarebbe potuto diventare. Pensavamo ad altre cose. Ambrò è
diventato un imprenditore internazionale ed ha una serie di locali a Londra, Wobi ha creato un altro
progetto discografico trip hop che si chiama Black Era. All’epoca era fortissimo ed oggi è diventato uno dei
tecnici di mastering più forti in Italia. Io volevo fare il dj quindi dovevo andare a Londra. Tutte queste cose
collimavano poco con il fatto di essere una band. Quindi io facevo lo stronzo e loro pure e tutta questa
stronzaggine ha fatto si che la cosa non continuasse. Dopo vent’anni chiedo scusa ai ragazzi, anche se non
abbiamo mai litigato.)

Tornando a Londra, quando ho fatto i mondiali di scratch ho capito che dovevo viverci, poi sono dovuto
tornare per problemi personali. Ma sono contento perché è stata potente quell’entrata di Londra nella mia
vita. Anche lì ho avuto la sensazione di far parte delle novità. Lavoravo in un negozio di dischi a Kilburn che
si chiamava Bassline Records, vendeva solo promo. Il venerdì venivano personaggi come Fatboyslim in
cerca dell’ultima tune, perché lì c’era la ricerca della super tune che mettevi la sera, poi magari quel disco
non sarebbe mai uscito però c’era questa ricerca. Io ho vissuto lì la nascita della UK garage, che non era
breakbeat ma prendeva un po'; dall’hip hop. E’ stata anche la roba che ha fatto nascere il grime, che adesso è tornato alla grandissima. Grazie a questa cosa tornavo in Italia e magicamente, siccome stavo a Londra, sono diventato resident nei posti più fichi, come al Velvet a Napoli che ha fatto storia. Andavo al Link a
Bologna, al Maffia. Per l’esterofilia italiana, perché è vero che stavo a Londra ma alcuni dischi riuscivo ad
averli già anche quando stavo in Italia. Però tornando da Londra era come se avessi questa legacy di
internazionalità che, in un paese come il nostro, faceva sempre la sua parte.

G: Hai parlato delle situazioni più underground tra Napoli e Londra. Napoli è sempre stata una piazza, una vetrina di riferimento per molti, anche per quanto riguarda lo stile. La ricerca dell’unicità, del vintage incontrano Ercolano, con il famoso mercato di Resina, che è un punto focale.
F: Resina non è altro che il nome arcaico di Ercolano, la parte antica della città. Per parte antica ti parlo di
quella pre Seconda Guerra Mondiale. Arrivando qui gli alleati della NATO, quindi gli americani, arrivarono
anche i vestiti americani. Quindi arrivò il jeans, il denim, il super denim americano. Esiste ancora il culto di
Resina, però il periodo forte è stato tra la fine degli anni 80 e i 90. Si faceva di domenica. Grandi brand
internazionali, con i quali ho avuto anche la fortuna di lavorare per le colonne sonore, come Diesel e tutte
le sue linee (55DSL, Diesel kids), Dolce e Gabbana, mandavano i loro buyer per venire a prendere diciamo
ispirazioni. Cioè loro andavano al mercato, compravano un’infinità di roba incredibile, la riportavano su, la
facevano visionare ai loro designer e da alcune borse, da alcuni capi, ne usciva una versione
completamente nuova, ridisegnata da loro, ma che sostanzialmente riprendeva il modello originale. E io mi
sono trovato a fare un po' anche da mediatore culturale tra questi buyer e i “magliari”, così si chiamavano
quelli dei panni. A volte venivano le ragazze dal nord, tutte bellissime, che arrivavano laggiù in mezzo a
questi che erano molto, come dire, hardcore. Questo poi è servito anche nella musica, oltre che alla moda.
Molti di questi stili erano anche elementi distintivi di alcuni movimenti musicali. Partendo dalle cose più
scontate, ad esempio la pelle, ma ti parlo di vera pelle, quindi il chiodo, il chiodo rappresentava qualcosa di
appartenente alla cultura rock’n roll, al mondo biker, o anche al dark, pre-emo e addirittura techno. Tutte
queste cose si incastonavano le une con le altre. Per esempio un’altra cosa che funzionava tantissimo era la
roba rave. A Napoli c’erano gli United Tribes, che erano uno dei movimenti più importanti per le feste che
facevano. Era un movimento new beat rave fantastico. Prima degli Angels of Love, gli United Tribes erano
conosciuti in tutto il mondo. E loro avevano lo stile da rave. A Resina vedevi le prime magliette con gli smile,
oppure le tute da lavoro, ma soprattutto le tute militari, quindi tutto ciò che era camo. Purtroppo è brutto
dirlo proprio adesso che viviamo una condizione militare terribile con quello che sta accadendo in Ucraina.
Però tu all’epoca, in maniera inconsapevole, sapevi qualunque esercito del mondo che tipo di tenuta
indossasse. Avevi il camo italiano, il camo della NATO, poi arrivarono i pantaloni larghissimi con le tasche
laterali dell’esercito russo, che erano di un camo diverso, grigio, nero e bianco.

G: Questo fu poi riproposto dal famoso marchio Energie che poi propose anche i bomber.
F: Esatto, nel rap io mi vestivo così. A 14 anni scoprii il bomber, quindi tutti i bomber delle squadre di
baseball. Poi avevo il basco, le hoodies e le scarpe alte. Avevamo le New Balance, le Nike Air e queste
erano tutte icone di un certo streetwear, ma per noi era naturale. Il mio primo paio di New Balance le presi
lì ed erano originali. Perché a Napoli esiste anche il mercato dei paralleli, dei pezzotti, cioè dei falsi
d’autore. Invece lì trovavi le robe originali, trovavi le Reebok da rave, le gazzelle. Ed era molto simile a
quello che succedeva a Soho a New York e a Soho a Londra, quindi trovavi le tute dell’Adidas alla Beastie
Boys. Il giubbino che indosso adesso è Adidas originale del ’77 e quando suonavo con Nevrotype tutto il
mio guardaroba veniva da Resina. A Resina un’altra cosa bellissima, anche antropologica, era, lo dico in
maniera ironica, il fatto di fare un po'; il cammelliere, cioè di fare la trattativa sul prezzo con i tipi: quello ti
diceva un prezzo, tu ne facevi un altro e andava avanti così finchè quello non si trovava. A quell’epoca, a
differenza di adesso che puoi pagare con il pos, pagavi con le mille lire, anche i Levi’s originali. E l’America
c’entrava sempre. Ad esempio nel secondo album dei Public Enemy, Chuck D aveva il bomber dei Raiders e
tu trovavi quella roba là a Resina. Te ne faccio un altro di collegamento. Quando tu senti la canzone “ E’
nato nu criatur, è nato nir” capisci che gli americani a Napoli ci stanno, anche nell’attitudine un po'; “Uè my
friend” della città. Ad esempio se tu vai a New York una delle feste più importanti è il San Gennaro Day. In
quel giorno a Little Italy non si capisce niente. Polo, de La Famiglia, vive a New York da ormai vent’anni ed è
uno dei capi di questa napoletanità a New York. Quando c’è il San Gennaro Day lui organizza con i suoi
amici, che sono tutti super rapper, come Tony Touch. Quindi questa cultura è sempre impattante e succede
in maniera naturale.

G: Adesso ti muovi in contesti abbastanza ufficiali e anche importanti. Però comunque nelle tue esperienze c’è il fermento ripreso da contesti urbani molto underground. Qual è un posto a Napoli dove si esprimeva questa libertà totale nella musica.
F: A Napoli per un certo periodo tutto quello che era legato a Officina 99 era molto libero. Poi c’è stata
anche una cultura “esterna”, nel senso che il Monte, il Vesuvio, è diventato una location. Sul Vesuvio
abbiamo fatto delle cose fantastiche, a partire dall’Osservatorio ad andare al Fiume di Pietra, che è uno dei
posti più fichi. Questa cosa ho avuto la fortuna di farla ultimamente, nelle ultime due estati, sono tornato a
suonare là sopra, con un freddo incredibile anche d’estate, davanti a una radura piena di gente. E’ stato
come un rave ma inteso come natura, come environment.

G: Pensavo fosse un fenomeno finito.
F: No no esiste. Chiaramente adesso parliamo di cose che sono assolutamente legali a differenza di tutte le
cose che facevamo, alle quali ho partecipato, alcune delle quali non lo erano. Ma all’epoca erano una
novità, era una figata già solo poterci arrivare fisicamente. Ti dico la verità, se dovessi farlo adesso magari
cadrei. Però diciamo che il Monte l’abbiamo vissuto tantissimo. Poi a Napoli un altro posto fondamentale
per una certa espressione era un po' fuori, verso Caserta. A Caiazzo c’era l’Old River Park, che ancora
rimane nella mente di tutti come un posto importantissimo per quelle cose che duravano dalla sera alla
mattina. Quindi c’è sempre stato il modo di viversi una condizione libera.
G: Finora abbiamo parlato molto di musica. Ma ci sono altri ambiti artistici dai quali prendi ispirazione o che ti interessano in modo particolare?
F: Cinema e letteratura sono i due ambiti per me più importanti. Il cinema, il grande schermo, ma anche la
sua filiazione, ad esempio le serie tv, sono cose che m’ispirano moltissimo e la letteratura, che poi è il mio
secondo mondo. Sono un fervido lettore da sempre, io uso i libri anche come cosa che mi cura proprio,
come posto in cui rifugiarmi. Anche per fare i dischi o scrivere i pezzi, le più grandi ispirazioni mi arrivano
dai libri e dal cinema. Cerco di collegare le cose, infatti sto cercando di seguire dei filoni che sono simili.
Attualmente la cosa che m’interessa di più è un certo tipo di racconto americano, genere hard boiled o
noir. Ad esempio mi piace come scrittore Lansdale, che è il mio preferito. Anche Don Winslow. Il tipo di film
che mi fa impazzire, tipo “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” è un certo tipo di racconto americano anche
molto tosto. Queste sono le due realtà nelle quali praticamente sguazzo.

G: Se non fossi diventato un Dj-producer, come ti saresti visto?
F: Ci penso tutti i giorni a questa cosa. Mi sarei visto a lavorare in una libreria. Mi sarebbe piaciuto stare in
mezzo ai libri, in qualunque modo, poi avrei preferito una libreria alla vecchia maniera. L’ideale sarebbe
stato lavorare in una biblioteca, è una delle cose che ho sempre pensato nei momenti più bui che
comunque questo lavoro ti porta. Facendo questo lavoro arrivano dei momenti pesanti da sopportare,
soprattutto per quello che è diventato adesso. Anche se non me ne frega niente degli altri comunque sei
investito da tutto quello che ti circonda e anche i social ti investono. Anche se tu ti senti superiore a certe
cose tu le vedi, vedi che alcune cose non funzionano o comunque tu pensi che non sia giusto che funzionino
così e quando ne vieni investito ci stai male. Stare con i miei libri mi piacerebbe tantissimo. Ecco se
esistesse un universo parallelo io starei in una libreria per i cazzi miei, ma non in una grande catena,
lavorerei in una libreria di quartiere, indipendente.

G: Finora abbiamo parlato del passato, quindi ciò che è stato: l’asse Napoli, Milano, Londra. Come città, come realtà, come situazioni, c’è un luogo che tieni sotto controllo e ti desta curiosità, che vedi particolarmente fervido e dove magari ti vedresti o ti piacerebbe andare a fare un’esperienza?
F: Mi piace moltissimo il Portogallo, ho avuto anche la fortuna di pubblicare con un’etichetta di Lisbona.
Allo stesso tempo sono meteoropatico, ma mi piace il nord Europa. Mi piacciono alcune cose della Francia
legate al vino, i posti della lavanda, la Provenza. Però adesso, alla mia età non sono pronto a fare un altro
cambio, poi chi può dirlo. Ma non credo di essere pronto a un cambio di vita. Per tornare all’inizio credo di
essere bloccato in questa dualità tra Milano e Napoli e credo che non si risolverà ancora. Ho detto anche di
no a delle proposte lavorative importanti per non trasferirmi. Mi piacerebbe però viaggiare in tanti posti.
Un’esperienza in Portogallo la farei, andare a fare un disco, a fare quattro mesi di studio là, ma con l’idea di
tornare. Io amo quella cosa del Portogallo che non è fashion come la Spagna, ma c’è il fado che ha quel tipo
di tonalità malinconica. Poi, anche geograficamente, è un posto estremo, ha quel meticciato bello pieno di
personalità. Li chiamano i brasiliani d’Europa. Quindi è abbastanza esotico, anche se ha quella tonalità in re
minore che è la mia tonalità quando suono. Ecco, mi piacerebbe andare a fare un disco là, mangiare quelle
cose e vedere quel mare essendo immerso nell’ambiente. Oppure, se ne avessi la possibilità andrei in
Islanda, per fare una drum’n bass di texture, una roba mentale, non da rave.

G: Più liquid e ambient quindi. Ok ci lasciamo immaginando i paesaggi abstract dell’Islanda.
F: In Breaks from the V tento di fare questo, partire da Napoli per andare a esplorare altri luoghi. Questo è
anche il concept della copertina, dove c’è quel treno famoso che io prendevo per andare fuori. In Tandoori
prendi delle cose indiane che hanno a che fare con Napoli, in Act One ci sono degli elementi ripresi da cose
giapponesi anni 60. C’è la black music di New York in Who be the B, e Londra nei pezzi drum’n bass. Ancora
c’è il nord Europa in Ten. Quindi è un po' quello che cerco di fare a mio modo, non far vedere la Napoli di
Jamme Jà e di Marechiaro. Altrimenti resti confinato a Napoli. Napoli diventa la stazione di partenza.
G: Novità ultimissime e progetti futuri?
F: Ho firmato con Stolen Goods records che è un progetto, nuova etichetta discografica, di Asian Fake e
diretto da Lele Sacchi. L’ 8 luglio è uscita la prima release che si chiama “Stolen Goods Volume Zero” nel quale,
tra gli artisti coinvolti, ci sono anch’io con un brano inedito breakbeat che si chiama “Read da hook”, che è
un omaggio al b-boying.
CREDITS:
Pictures by Gaia Merolla
Movie by Welikethefish
Art Direction and production by Alice Suppa
Interview by Giorgia Ramone