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1986: I FIGLI DI CHERNOBYL

Ore 1:23:54 del 26 aprile del 1986 il reattore numero 4 esplose. La vita di molti cambiò irrimediabilmente; l’emergenza nucleare fece scattare in tutta Europa (e non solo) provvedimenti restrittivi sul consumo di verdure e latte: il terreno era contaminato.



la centrale di Chernobyl dopo l'esplosione del reattore n4 - via theguardian.com photograph AP

Contaminata di paura, la gente, si fece inghiottire dall’impossibilità di reazione (sensazione ben nota anche oggi). Me li immagino i miei genitori, con un piccolo essere di un anno, a cercare di capire come sarebbe stato il suo futuro, guardando disarmati e atterriti un mondo avvelenato e sofferente.



Ma dai non è successo nulla alla fine, no?! Abbiamo passato le nostre belle estati torride con il fetore che incombeva nelle nostre menti, una nebbia cupa ad oscurare le nostre pupille, come sempre in preda agli effetti della droga, cedendo a deliri di onnipotenza e poi insicurezza e disarmanti cali di autostima. Mercanteggiare sentimenti per la paura della solitudine, perlustrare gli angoli più nascosti di una psiche toccata da musica molesta e un’insaziata voglia di amore, di bisogno di non si sa cosa , di morire, di sentirsi vivi. La partoriente Chernobyl aveva partorito i suoi figli, minandoli di sogni e incubi, di paure e deliri, su una teknoterra che suonava: non si risparmiava di bassi che bussavano nelle strade viscide del petto e poi salivano fino al cervello di noi creature infelici, bramando pozioni analgesiche, alterchi tra il cervello e il cuore.


Poi si cresce: da teknoterra ai teknival.



via shockraver, photo by Shine
via ShockRaver, photo by Shine


La subcultura contaminata non si esprime solo attraverso le feste o le produzioni musicali, ma anche attraverso il design, pittura e manifestazioni che si pongono come antagonisti dell’esistente, della famiglia, della scuola e del lavoro.


Stare in campana, stimolati, in fuga, sempre, dagli altri, in fuga dalle radiazioni della conformità, rifugiandosi dentro se stessi, in quel territorio compromesso dalla radioattività . “No, gabber, you can’t come in here”

Negli anni ‘90 la Gabber entrò con prepotenza delle classifiche olandesi tanto che nacquero delle linee di abbigliamento firmate dalle case di produzione. Lo stile raccontava un modo di vivere in tute da ginnastica, polo Fila o Lonsdale, scarpe Nike Air Max, bomber e cappellini. Si differenziava tra uomo e donna solo nei capelli: totalmente rasati per i ragazzi, rasati ai lati con le lunghezze raccolte in trecce o code per le ragazze. Lo stile rave tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio degli anni 2000 è stato fortemente influenzato dalla cultura hip hop. Le scarpe Adidas e i pantaloni a zampa d’elefante sono diventati un capo essenziale del guardaroba. I primi anni 2000 furono anche un’epoca in cui lo stile cyber dominava la pista da ballo con neri semplici e colori UV e neon in netto contrasto. L’acido nucleare ha saputo dipingere sui propri figli i colori iridescenti dei cyber, poi lo scuro di una terra malformata da 200 bpm di solitudine assordante della Hardcore, calpestati da Buffalo, sudando dentro New Rock e cedere il passo all’insonnia, al lucido delle pupille, al ruvido delle lingue, alla bellezza di non sentire più niente.




A volte era giorno, a volte era notte, distinguevo le sagome, ma preferivo distendermi sui suoni, sul mio respiro, su quello di fianco a me, che respirava appena, era immobile da ore come se stesse risolvendo il teorema di Fermat dopo la Marathon Des Sables (254 km di C13H16ClNO).



Queste sono storie di vita vera: riaprire gli occhi dopo 3 giorni accorgersi che ti manca l’acqua corrente e la sintassi; ai piedi pre-eutanasia delle Osiris, e intorno gente che si regge i pantaloni come se c’avessero paura che il culo gli possa cascare, PIENI come il sedere di un narcotrafficante colombiano e comunque... che bel sound.



via ShockRaver, photo by Sara

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